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Siete qui: Home Festival Festival 2012 Ad vocis suavitatem
Ad vocis suavitatem PDF Stampa E-mail

Calore, luce. Abisso siderale. È curioso notare quante diverse sinestesie il timbro degli ottoni evochi nei poeti. In Montale, quando appare il giallo dei limoni, «in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità», mentre la O blu-violetta, tra le Vocali di Rimbaud, colloca la sua tonda perfezione di «clairon suprème» tra «strideurs etranges» e «silences traversés des Mondes et des Anges». La capacità di plasmarsi su tinte opposte e complementari appartiene agli strumenti a bocchino fin dagli albori della loro storia nella musica colta. Non a caso il teorico Marin Mersenne, nei suoi Harmonicorum instrumentorum libridel 1636, invitava il bravo suonatore di trombone a non accontentarsi di clangori bellicosi, ma a emulare la soavità della voce umana: «Tubae militaris sonos non imitetur, magisque accedat ad vocis suavitatem».
Una sfida che i Canadian Brass fanno propria in questo programma, nel quale gli ottoni parlano e cantano in una varietà di lingue: dal tardo Rinascimento di Monteverdi, che nell’Orfeo inventò l’uso moderno degli ottoni mentre dava carnalità di sentimento e splendore d’arte agli intellettualistici esperimenti fiorentini del recitar cantando, al Novecento brechtiano, straniante di Kurt Weill, c’è spazio per rendere omaggio all’assoluto mozartiano, operistico e sacro, e agli archetipi teatrali di Rossini e Bizet, non senza una doverosa sosta nell’America blues di Gershwin. A parte la Toccata di Orfeo, che da subito fu pensata come una fanfara per ottoni, un magnifico sipario sonoro che chiama a raccolta la festa teatrale di corte, siamo nel regno della trascrizione, croce e delizia dei virtuosi di ogni strumento. Persino il grande Ferruccio Busoni, strenuo paladino della trascrizione pianistica, nelle pagine del suo Sguardo lieto non se ne nascondeva il pericolo: «Poiché in tutti i tempi i mediocri sono la maggioranza, al tempo dei virtuosi si ebbe un’infinità di trascrizioni mediocri, anzi di cattivo gusto e deformatrici degli originali». E tuttavia vale la pena di correre il rischio. Non solo perché «una musica buona, grande, universale, resta la stessa qualunque sia il mezzo attraverso cui si faccia sentire». Ma soprattutto perché «mezzi diversi hanno un linguaggio diverso (loro peculiare) col quale comunicano questa musica in modo sempre un po’ differente». Scopriamo dunque quali sapori nuovi acquistano la furba frenesia di Figaro e la collera stellare d’Astrifiammante, la fatale sensualità di Carmen e la ribalderia spavalda di Mackie Messer.

Marina Verzoletto