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Il Concerto barocco e la Cantata profana, ovvero il primato dello stile italiano nel Settecento PDF Stampa E-mail

di Federico Scoponi

L’eredità più preziosa lasciata dal genio musicale di Vivaldi è senza dubbio quella delle sue opere strumentali, nate da una felice commistione di istinto creativo e fine artigianato grazie ai quali il genere del Concerto raggiunse i suoi massimi livelli di invenzione e organizzazione formale. Nel suo interminabile catalogo sono enumerati ben 478 Concerti, tra i quali quello per violino e violoncello RV 547 è uno dei 79 per due o più strumenti obbligati (solisti), orchestra d’archi e basso continuo. L’eclettica sintesi linguistica compiuta da Vivaldi nel decretare la definitiva supremazia del modello in tre tempi (generalmente Allegro/Adagio – Andante in questo caso – /Allegro) si realizza qui come altrove con estrema disinvoltura e intensità espressiva nel rapporto tra soli e orchestra, laddove la concezione piuttosto libera e il carattere lirico del movimento centrale creano gran contrasto con l’eccitazione ritmica dei movimenti vivaci, la cui base formale è caratterizzata da un ritornello ripreso dal tutti mentre i solisti, in sensuale continua interazione, mettono alla prova le loro capacità tecnico-virtuosistiche prima reiterando alcuni elementi motivici già sentiti, poi introducendo vigorose divagazioni, con il violoncello che fa eco nel registro grave alle guizzanti evoluzioni del violino. Così grazie alle sue sperimentazioni e alla sua personalissima concezione stilistica, Vivaldi consolida una forma musicale che si preparava a imporsi con rinnovate vesti durante tutto il Settecento per rimanere pressoché intatta fino all’epoca di Beethoven, prontamente assimilata persino dallo stesso J.S. Bach, il quale esprimerà la propria stima trascrivendo almeno sei Concerti del veneziano, per organo o clavicembalo. E sarà proprio il clavicembalo ad essere investito da Bach di un nuovo ruolo che lo avrebbe emancipato dalle funzioni di basso continuo: quello di strumento solista nel contesto orchestrale, privilegio che per la prima volta è esibito nel gruppo di Concerti scritti (o meglio tra-scritti in gran parte da lavori precedenti) a Lipsia dal 1727 al 1736 circa, tra cui il BWV 1055 il cui modello è un inconsueto Concerto per oboe d’amore, andato perduto. Aderente ai tre movimenti del modello vivaldiano, mentre sviluppa magistralmente la tecnica compositiva/esecutiva del suo strumento, Bach fa ricco uso di ornamentazioni idiomatiche – estese sempre più anche alla mano sinistra – alternando il carattere brillante del la maggiore dei movimenti estremi al toccante fa# minore del Larghetto centrale in una costante e luminosa combinazione di figure melodiche seducenti e pulsazioni ritmiche frizzanti.
D’altra parte, in ambito vocale, intimamente italiani sono pure il soggetto amoroso, il clima pastorale e la varietà dei moduli espressivi di quella Cantata da camera per voce sola che tanto fu in voga tra Sei e Settecento da spingere il giovane G.F. Händel ad approdare in Italia (1706-10) per assimilare la viva lezione di uno stile e un gusto dominanti sulla scena musicale europea, incarnati in quel tempo da maestri dell’Arcadia come A. Corelli e i due Scarlatti. Della ventina di Cantate per voce sola accompagnata da strumenti (con organici variabili) composte sotto l’egida di ecclesiastici e nobili romani tra cui il Marchese Ruspoli e i Cardinali Pamphili e Ottoboni, fanno parte entrambe le Cantate in programma, fra le prime con cui Händel esordì a Roma. Se Tu fedel? Tu costante? (con due violini e continuo, formalmente più semplice sin dalla breve Sonata d’apertura) presenta l’evoluzione dei pensieri e il concitato crescendo emozionale della protagonista in una serie regolare di 4 recitativi e 4 arie, la maestosa e generosa rappresentazione di contrastanti affetti del Delirio amoroso (testo di Pamphili) diventa per dimensioni e complessità strutturale quasi un’opera in miniatura – introdotta da un’ampia Sinfonia tripartita – in cui il ventiduenne musicista esibisce una singolare abilità teatrale nella scelta raffinata della strumentazione (oboe, flauto, 3 violini, viola, violoncello e continuo) e una stupefacente forza drammatica del dialogo voce/strumenti nel cogliere le opportunità testuali, mettendo così subito in chiaro quella che sarà di lì a poco la portata irresistibile della sua fantasiosa intelligenza di sommo operista “italiano”.