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Sonate e Partite PDF Stampa E-mail

Opera considerata monumentale, per aver investito lo strumento ad arco di una straordinaria potenzialità polifonica, il gruppo delle Sei Sonate e Partite per violino solo fu concepito da Bach intorno al 1720, secondo la data riportata sul manoscritto. Da uno strumento monodico ci si aspetta scaturisca una voce sola, con rari momenti polifonici o al più qualche accordo simultaneo, un rapido scambio tra zone di registro opposto, non certo il concertare di più voci. Eppure, la presenza fitta di più linee in confronto, la trama della scrittura imitativa, la concezione stessa del dialogo in un solo violino rappresenta un qualcosa di miracoloso.
La forzatura dei limiti tecnici naturali dello strumento genera “un’illusione” polifonica, con note multiple doppie e triple, con linee melodiche indipendenti e sovrapposte. Emerge una “polifonia latente”, un’esperienza sensoriale che esige la partecipazione attiva all’ascolto: siamo complici dell’idea che più linee possano coesistere, benché permanga il dubbio di essere vittime di un sofisticato inganno. Perché Bach ha scritto queste pagine per un solo violino perché non ha concretizzato il dialogo fra due violini? Risponde Nikolaus Forkel, tra i primi autorevoli studiosi bachiani: «I sei Soli per violino […] non ammettono l’aggiunta di un’altra voce. Bach seppe combinare tutte le note necessarie all’autonomia della modulazione in una sola parte, rendendo una seconda non solo superflua, ma addirittura impossibile».
Sono pagine compiute e autonome, di forte coesione interna, armonica e tematica. Le Sonate rispettano la struttura della sonata da chiesa barocca in quattro movimenti, lento-veloce-lento-veloce, esibendo una scrittura di profilo contrappuntistico: un adagio (o grave), una solenne fuga, un lento cantabile e un travolgente allegro. Le Partite inanellano danze secondo lo schema della suite: allemanda, corrente, sarabanda e giga, sostituite o impreziosite da altre danze più desuete. Ed è nella Ciaccona della Partita n. 2 che incontriamo il vertice assoluto: sentiamo almeno tre voci, nel gonfiarsi del dialogo, dell’imitazione, del pathos. L’architettura audace è retta da un nucleo tematico semplice, una cellula di otto note che Bach getta nell’onda della variazione, continua, inesorabile, totale. Vi germogliano tutte le declinazioni, ritmiche, timbriche, tonali, di fraseggio e oltre, ma lo scacco finale, dopo tanta “varietà”, è il ritorno alle origini: al lamento d’apertura spetta il compito di chiudere il sipario.

Monica Luccisano