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Siete qui: Home Festival Festival 2011 «Voglio amore e amor violento»
«Voglio amore e amor violento» PDF Stampa E-mail
Maggio 1835. La vena creativa di Donizetti è tanto impaziente che quando finalmente la Società dei Teatri di Napoli su sollecitazione del compositore autorizza Salvatore Cammarano a stendere il libretto della Lucia di Lammermoor la partitura è completata in poco più di un mese, infatti l’ultimo foglio ha la data “1835, luglio 6”. Il poema The Bride of Lammermoor di Walter Scott, con la sua intensa passione drammatica, è l’ispirazione ideale per il musicista, che desidera da sempre un personaggio come la protagonista. Lo stile dello scrittore scozzese, che si può tradurre efficacemente, contribuisce molto in quegli anni a diffondere all’estero il gusto romantico. Cammarano da parte sua semplifica in maniera ottimale la trama del romanzo (fa una drastica riduzione della famiglia Ashton, sorvola sulla complicata trama politico-religiosa) a vantaggio dell’azione che per Donizetti deve sempre essere rapida, ma conserva i dettagli importanti, infatti la vicenda risulta del tutto comprensibile e i conflitti sono presentati con chiarezza. Quanto il musicista è coinvolto nell’impeto, nella concitazione dei fatti e degli animi lo rivelano le sincopi, i silenzi, i dialoghi, ma anche la scrittura velocissima e nervosa dell’autografo.
Nasce così una delle più alte espressioni del melodramma romantico italiano, frutto di fusione ed equilibrio di drammaturgia e di musica, in particolare di purezza di canto: all’autore non serve altro che la scrittura vocale. Il clima creato da Scott è già di per sé romantico, sullo sfondo di uno paesaggio tenebroso, sinistro di una Scozia dall’atmosfera gotica rivisitata con gli occhi di Ossian e Hoffmann, la natura non è più una cornice da contemplare, ma uno scenario innervato dagli affetti e dalle azioni umane.
Donizetti non antepone una sinfonia all’opera, entra subito nel vivo dell’azione. Mistero e tragedia si sentono fin dai rintocchi cupi dei timpani nella tonalità funesta di si bemolle minore; di straordinaria efficacia far precedere da una sosta di angoscia pressante l’esplosione degli affanni del sestetto «Chi mi frena in tal momento». Il compositore tramuta in energia creativa la pietà che riserva a ogni gesto di Lucia. Da lei dipendono e traggono vita e azione gli altri personaggi, pur avendo Edgardo ed Enrico tratti originalissimi; soprattutto il primo, con una robusta voce tenorile caratterizzante la personalità dell’eroe romantico, la cui importanza è sottolineata dal fatto che a lui è affidata la scena finale, mentre il suo suicidio, invece che atto inconsulto, diventa donazione suprema di sé. Ma Lucia è sempre presente anche quando non appare sulla scena. Nel corso degli eventi i timbri che l’accompagnano cambiano: dapprima l’arpa, in seguito l’oboe, i violoncelli, infine il flauto, irreale nella sua fissità che evoca la follia. La sua parte non è occasione di sfoggio virtuosistico, anche quando è affiancata al flauto non è più lei che imita lo strumento, ma quest’ultimo la voce umana e comunque i vocalizzi del soprano smettono di essere sublimazione dei sentimenti per diventarne intensa e patetica espressione. La musica che l’accompagna, indipendentemente dagli sviluppi tragici è celestiale, elegiaca, dolente, smarrita; la pietas donizettiana toglie il peso della colpa all’omicidio della protagonista, il cui connotato musicale è sempre di purezza e innocenza. Ogni momento dell’opera avanza verso la follia, come l’evolversi di un male e il materiale musicale a volte è presentimento, altre ricordo e al culmine del delirio riaffiorano alla mente dell’infelice i momenti cruciali del suo destino, il primo incontro con Edgardo, la scena della fonte, l’inno di nozze, il giuramento, il canto d’addio.

Monica Rosolen