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Siete qui: Home Festival Festival 2009 Le melodie impertinenti di Bartók e le variegate atmosfere di Dvořák
Le melodie impertinenti di Bartók e le variegate atmosfere di Dvořák PDF Stampa E-mail

di Carlo Bellora

Musica per violinisti di grande temperamento quella di Bartók (Nagyszentmiklos, Transilvania, 1881 – New York, 1945). A cominciare dalla Rapsodia n. 1 per violino e orchestra composta nel 1928, dapprima nella versione per violino e pianoforte, successivamente in quella per violino e orchestra. Dedicata al virtuoso Joseph Szigeti, la Rapsodia n. 1 affonda le proprie radici stilistiche nella temperie stilistica della tradizione folkloristica ungherese e specialmente nella forma della Czarda con quella sua tipica alternanza tra la prima parte lenta e la seconda veloce, in accelerando. Anche il Concerto per violino e orchestra n. 1 fu realizzato per una violinista, la promettente giovane Stefi Geyer – un’allieva del grande violinista Jeno Hubay tra il 1907 e il 1908 – periodo in cui il compositore si era innamorato della bella interprete. Il lavoro rimase, peraltro, sconosciuto a tutti fino a quando nel 1958 – ormai morto Bartók - la violinista consegnò la partitura del Concerto n. 1 nelle mani del direttore svizzero Paul Sacher, il quale lo eseguì in prima mondiale il 30 maggio dello stesso anno a Basilea.

Concerto diviso in due movimenti – anche se Bartók avrebbe voluto scriverne il terzo – nasce da melodia malinconica del violino solo nel piano, cui si aggiungono gradualmente gli archi. Movimento eminentemente lirico, accresce il suo organico fino al culmine dinamico, che si sviluppa nelle zone centrali, per poi richiudersi nel finale con gli struggenti colori timbrici dei fiati. Riprende nel finale il violino solista con i suoi arabeschi, prima che un colpo di percussione riproponga le atmosfere ovattate dell’introduzione.

Segue l’Allegro giocoso che il solista introduce nel registro sovracuto della quarta corda, quasi fosse ostentazione palese di un gesto virtuosistico. Seguono altre accelerazioni del violino solo, fino a quando la materia musicale si distende e ritrova nella zona centrale del movimento il pathos lirico del primo movimento con gli splendidi colori della tessitura orchestrale, un evidente omaggio a Richard Strauss. Infine, il baldanzoso finale, introdotto da un manipolo di fiati che ripropongono il Tempo primo con tono un po’ impettito, ma poi ci pensa il violino solista a riproporre la bellezza impertinente delle migliori melodie bartokiane.

Dvorák (Nelahozeves, Kralupy, 1841 – Praga, 1904) era già un compositore celebre quando scrisse tra il 1884 e il 1885 la Sinfonia n. 7. Il brano si apre con un Allegro maestoso dal tono sommesso delle viole e dei violoncelli su un cupo rullare di timpani che ben presto svanisce per aprirsi verso un tema di ascendenza brahmsiana. Il secondo movimento, Poco adagio, è pervaso dalla vitalità dei fiati, uniti a delineare un domestico corale o isolati in trepidanti solismi, appena velati di romantica malinconia. Lo Scherzo, il terzo movimento, è la pagina che conquista di colpo per la vivacità delle cadenze danzanti, quasi fosse un valzer allargato. Il Finale riprende il clima del primo movimento e lo porta a compimento sciorinando una serie di idee tematiche che vengono presentate e sviluppate con la grande coerenza del compositore dominatore dei propri mezzi espressivi, che pur si diverte a citare - qua e là - il carattere eroico della musica di Smetana, e le atmosfere terse di Mendelssohn, per poi ritrovare sé stesso nella maestosa conclusione.