«Le marin c’est moi» |
di Luigi Di Fronzo Cos’hanno in comune il Concerto dell’albatro di Ghedini, La Tempesta di mare di Vivaldi, l’ouverture della Calma di mare e felice viaggio di Mendelssohn e La Mer di Debussy se non l’acre, rigenerante profumo di salsedine? Sul globo come sappiamo ci sono enormi distese d’acqua, specchi lagunari e spazi profondi davvero di ogni tipo. C’è il mare scuro, tenebroso, a tratti violento nel gioco rissoso delle onde che ci inonda dalle pagine narrative del Tifone di Conrad, come c’è quello disteso, immobile, che ferisce lo sguardo in un’abbagliante distesa infuocata dal sole allo Zenit, proprio come nella Mer. In realtà la musica ci offre un discreto campionario: il mare mediterraneo dell’Otello di Verdi, quello freddo e nordico di foggia romanticamente brahmsiana (Lieder e musica da camera), l’esotico ancheggiare della goletta in Shéhérazade di Ravel e il mare inquieto, plumbeo e cupo del Peter Grimes di Britten. Difficile certo immaginare l’esatta percezione marina di un autore come Debussy, che guardava le acque con occhi utopistici e lontani (L’isle joyeuse, Reflets dans l’eau, Sirènes, La Cathédrale engloutie) in un ambiente impressionista già fortemente segnato dalle onde di Hokusai e dai velieri di Turner. Sia come sia, quando nel 1889 si trovò a rispondere – come nel fatidico decalogo proustiano – alla domanda sulla professione preferita se non fosse diventato musicista, Debussy non ebbe alcun dubbio: “il marinaio” era lui, influenzato forse dal carattere nomade del padre e dalle aspirazioni di vagare nei mari del Sud. Difficile che conoscesse Salgari, ma certamente le tele di Gauguin, il Gordon Pym di Poe e il nome di Stevenson potevano dirgli qualcosa. Fu in ogni caso nel 1903, in piena stesura de La Mer, che scrivendo ad André Messager Debussy volle puntualizzare: «Voi forse non sapete che ero destinato all’ottima carriera del marinaio e che ne fui distolto soltanto dalle vicissitudini della vita» e forse il ricordo andava alla luce sul Mediterraneo e ai soggiorni in Bretagna. L’esito più ovvio è una tavolozza di giochi di luce, un paesaggio stemperato fra abili colpi di pennello, dove si respira la forza del vento e il profumo del mare. Musica «assorbita dalla carta» come in un album di incisioni giapponesi, allora tanto in voga. «La musique est des couleurs» annoterà fra i suoi scritti. Se dunque a Parigi, dopo aver assaporato il gusto decadente sul testo simbolista del Pélleas di Debussy, il pubblico più conformista veniva educato alla complessità delle opere di Wagner (come Tristano, rappresentata finalmente nel 1904) e più tardi il Boris Godunov di Musorgskij in scena nel 1906, con La Mer l’autore metteva a fuoco un mondo di suggestioni pittoriche, in un complesso intreccio sonoro che alludeva alla vastità degli orizzonti e al movimento del mare. Le allusioni alla pittura aiutano dunque a fotografare tre episodi – Dall’alba a mezzogiorno, Giochi di onde, Dialogo del vento e del mare – e creano l’occasione di un misterioso ondeggiare per quinte nel primo, di un gioco mobilissimo di figurazioni nel secondo e di un’inarrestabile energia nell’ultimo. La partitura fu accolta con un misto di incredulità e favore alla prima del 15 ottobre 1905, per i Concerts Lamoureux. Per la cronaca dirigeva Camille Chevillard. |