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Schubert, Berwald, Beethoven PDF Stampa E-mail

Lo spirito cameristico di uno Schubert non ancora ventenne si misura nel 1816-17 su due Trii per archi (D 471 e D 581) entrambi in si bemolle maggiore. Del primo la stesura si ferma a un Allegro (salvo una trentina di battute di un movimento lento): la linearità gaudente del tema principale, entro cui il violino assume il ruolo protagonista, le oscillanti crome d’accompagnamento della viola, il caldo tappeto offerto dal violoncello e le rapide reunions delle tre voci segnano una scrittura acerba, lungo l’asse Haydn-Mozart. Tuttavia, in un temporaneo passaggio in pianissimo, nelle tensioni modulanti che portano al secondo tema, e nella fisionomia interna di questo, affiorano avvisaglie dei futuri moti inquieti del compositore, capace nel quadro di una solare spensieratezza a infondere un pensiero ricurvo, malinconico, e un timore latente. Un sintomo più preciso, forse, lo avrebbero portato le pagine del Trio che non videro mai la luce.
Poco stimato in vita, il compositore romantico svedese Franz Adolf Berwald ebbe il suo riscatto nel Novecento, quando gli furono riconosciuti stile e personalità. Il suo Gran Settimino, datato 1828, mostra una trama persuasiva, con idee melodiche ben definite e soluzioni dinamico-espressive efficaci: è il caso delle lunghe linee dei fiati opposte al pizzicato degli archi nell’Allegro molto, dell’emergere del clarinetto a sostenere il racconto melodico nel primo movimento, del lirismo raccolto dal violino nelle sezioni lente che circondano il Prestissimo, dove la pagina rivela il maggior profilo romantico tra le sfumature brune del nord. L’intera compagine si trasforma poi, nell’Allegro con spirito, in un ensemble da opera buffa di raffinata orchestrazione.
È un Beethoven intento a tradurre l’eredità del genere brioso e d’occasione, quello che a cavallo dell’anno 1800 scrive il Settimino op. 20. Pagina simbolo dell’ultimo omaggio a un mondo che consumava la musica come ricreazione e ornamento del vivere, presenta uno spirito affine alla serenata ed è formalmente paragonabile a un divertissement in sei movimenti, o a un’ampia sinfonia da camera. Anche la scelta della tonalità, mi bemolle maggiore, testimonia lo sguardo al passato e alla tradizione haydniana. Pur ammettendo lo stesso autore che nel Settimino vi fosse fantasia, ma non vera arte, con la sua ricca fisionomia timbrica talora sfiora l’effetto orchestrale. E l’agile Scherzo ne è il momento più profetico: nella sua forte identità espressiva traspare il profilo del futuro genio sinfonico.

Monica Luccisano