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Siete qui: Home Festival Festival 2013 Gli ultimi quartetti di Beethoven, o della capacità del genio di dare senso al caos (I)
Gli ultimi quartetti di Beethoven, o della capacità del genio di dare senso al caos (I) PDF Stampa E-mail

Grazie all’impeto drammatico del suo temperamento, Beethoven irruppe sulla scena musicale del proprio tempo con una forza senza precedenti, laddove la sua figura è in vari sensi centrale: sul piano linguistico, dell’ethos, della collocazione della musica quale elemento di cultura nel tessuto sociale. Con lo scossone beethoveniano, quella forma-sonata che identifica la personalità e l’opera dei suoi grandi predecessori della scuola viennese, verrà tesa fin quasi alle estreme conseguenze, e se le 32 Sonate per pianoforte sono il luogo deputato alla sperimentazione, il monumentale corpus dei 17 Quartetti per archi rappresenta il territorio d’elezione non solo dell’evoluzione formale ma anche dell’assoluta concentrazione introspettiva e del travaglio umano e spirituale dell’autore. L’essenza del suo testamento artistico impregna in particolare l’ultimo ciclo di quartetti composto tra il 1824 e il 1826 con straordinaria visionarietà e tensione verso inauditi orizzonti compositivi che ai suoi contemporanei non potevano non apparire spesso astrusi e indecifrabili. L’op. 132 si rivela così metafora di una liberazione interiore dalle sofferenze esteriori (con la didascalia del movimento lento centrale: «Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidio») in una ricerca contemplativa il cui motivo iniziale esposto dal violoncello, Sol#-La-Fa-Mi, ricorda istintivamente il soggetto costruito sul nome B-A-C-H (Sib-La-Do-Si) dell’enigmatica Arte della fuga. Dunque un programma che ci ammonisce sull’inadeguatezza della mente umana di fronte alle più alte vette del pensiero speculativo, mentre in un simile contesto è forse l’imponente Grande fuga op. 133 che più esprime la portata rivoluzionaria del pensiero beethoveniano, con l’incandescente trattamento espressivo della materia sonora che compie un’improvvisa accelerazione lunga un secolo, sebbene imperniata su uno stilema squisitamente barocco. La fuga assume così per Beethoven i connotati di un arcaico strumento che racchiude in nuce tutte le potenzialità del linguaggio musicale del futuro. In origine scritta come ultimo movimento dell’op. 130, essa è costituita da 3 ampie sezioni precedute da un’Overtura (sic), che ne fanno l’edificio contrappuntistico più complesso e ardito elaborato da Beethoven, il cui scioccante radicalismo della scrittura, ruvida e austera, ha spinto Stravinskij a definirla «il perfetto miracolo di tutta la musica. [...] Musica contemporanea che rimarrà contemporanea per sempre».

Federico Scoponi