Slanci e tensioni romantiche in tre capolavori del XIX secolo |
Quando Brahms ironicamente la definì «una composizione basata su un pot-pourri di canzoni studentesche alla Suppé», forse non s’aspettava che questa Ouverture per grande orchestra avrebbe conseguito tanta fortuna. Composta nell’estate 1880, essa è un puro divertimento, un quodlibet in quattro sezioni i cui temi goliardici si innestano senza soluzione di continuità, articolati in una maniera libera e rapsodica che dissimula una “non-accademica” forma sonata intrisa di irresistibile, serena euforia. Offrendo anche un tributo in chiave parodistica al tema degli apprendisti da I Maestri Cantori di Wagner, Brahms non lesina i mezzi espressivi e usa l’organico delle Sinfonie, con l’aggiunta di triangolo, piatti e grancassa, così da assicurarsi un irriverente e spensierato effetto bandistico. E non è un caso se qualche anno prima (1839), in visita a Vienna al fratello di Franz Schubert, Schumann scoprì fra i numerosi manoscritti dimenticati in un cassetto, quell’imponente Sinfonia in do maggiore (datata 1828, anno della morte di Franz) di cui colse la potente tensione verso l’ampliamento e la trasformazione dei mezzi espressivi in una nuova concezione dell’impianto formale, descrivendola così: «chi non conosce questa Sinfonia conosce ancor poco Schubert; e questa lode può sembrare appena credibile se si pensa a tutto quello che Schubert ha già donato all’Arte [...] qui c’è la vita in tutte le sue fibre, il colorito sino alla sfumatura più fine, v’è significato dappertutto [...] Questa sinfonia ha agito su di noi come nessuna ancora, dopo quelle di Beethoven».
Federico Scoponi |