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Siete qui: Home Festival Festival 2012 Bartók e Mahler, giganti del Novecento
Bartók e Mahler, giganti del Novecento PDF Stampa E-mail

Il nome di Bartók è legato alla sua attività di folclorista. Come un sapiente archeologo della musica mosso da un’inesauribile curiosità nella ricerca delle fonti primigenie della musica, Bartók cominciò ad andare in giro con il suo magnetofono a tromba, convincendo i contadini ad intonare le canzoni dell’infanzia, per poi inciderle sui rulli di cera. La classificazione scientifica della musica popolare assorbì gran parte delle sue energie riportando alla luce uno stile antico, conservato negli strati più umili della popolazione contadina. Affiorano scaglie di antichi modi bizantini, scale eptatoniche e melodie pentatoniche che lo liberano «dalla tirannia dei sistemi maggiore e minore» per abbracciare un linguaggio di svariate componenti: l’irregolarità ritmica, lo sperimentalismo cromatico che sconfina nella dissonanza, il contrappunto bachiano, le nuances impressioniste, ma anche l’espressionismo barbarico che si traduce nell’esplorazione dell’inconscio. Il folto intricarsi delle varie “anime” nella sua produzione, senza che nessuna di queste prevalga sull’altra, finisce per contrassegnare anche i due lavori di stasera: i Canti contadini ungheresi Sz 100, scovati intorno al 1910 a Ipolyság (ora in Slovacchia) grazie all’aiuto di un oscuro archivista locale, codificati in una prima stesura per pianoforte fra il 1914 e il ’18, e orchestrati nel ’33; e il Concerto n.1 per violino: composto tra il 1907 e 1908, ma battezzato soltanto nel 1958, a Basilea. Bartók l’aveva scritto infatti per la violinista ungherese Stefi Geyer, con la quale aveva avuto una breve e tormentata relazione. È in due movimenti contrastanti: un lirico Andante sostenuto e un Andante giocoso che dipinge «la vera Stefi, gaia, spirituale e divertente». «Il mio tempo verrà», aveva profetizzato un secolo fa Mahler. La Quinta Sinfonia ha un’integrità strumentale, riequilibrata dall’utilizzo di una fitta polifonia orchestrale e dalla disseminazione di citazioni di Lieder come il Lob des hohen Verstandes nell’ultimo movimento, tratto dalla raccolta del Wunderhorn. Composta fra il 1901 e il 1902 (ma la versione definitiva è del 1911), fu accolta per la prima volta a Colonia nel 1904. Scorrendo la partitura in senso orizzontale troviamo una lugubre Marcia funebre, un effervescente movimento di passaggio (Stürmisch bewegt), uno Scherzo centrale con tutti gli estri della musica contadina, un doloroso e lirico Adagietto e un monumentale Rondò-Finale che non disdegna un tocco di ironia nell’inserimento di una fuga.

Luigi Di Fronzo