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Siete qui: Home Festival Festival 2011 Il pianto e il riso
Il pianto e il riso PDF Stampa E-mail
Come il teatro, la musica ha due maschere, tragica e comica. Una piange, l’altra ride. Trapassano l’una nell’altra; dialogano e si interrogano.
Mendelssohn compose il secondo Quartetto nel 1827, un mese dopo la morte di Beethoven. Appena diciottenne, vantava già una cospicua produzione strumentale. Con coraggio si confronta con gli ultimi, enigmatici capolavori beethoveniani. Come l’op. 135 di Beethoven, l’op. 13 di Mendelssohn ha in epigrafe un interrogativo: là «Muss es sein?» («Deve essere?»), qui «Ist es wahr?» («È vero?»), citazione di un recente Lied. L’inciso alimenta l’introduttivo Adagio in la maggiore, esordio insolito per un lavoro in minore; ritorna nell’altrettanto inconsueta conclusione Adagio non lento, configurando una struttura ciclica e un clima espressivo di sospesa ambiguità. Il motivo iniziale allude all’op. 132, mentre il fugato centrale del secondo movimento non nasconde la parentela con l’analogo luogo dell’op. 95. Più mendelssohniano l’Intermezzo, con l’agile canto del violino sull’accompagnamento pizzicato e il successivo «moto perpetuo» che richiama il fantastico universo shakespeariano del Sogno di una notte di mezza estate. Il cimento con il Titano di Bonn ritorna nel finale, che ha ancora a modello l’op. 132: la cadenza del violino, il tema del violoncello.
Mendelssohn, a dispetto dell’etichetta di «romantico felice» coniata da Massimo Mila, non fu immune da crisi creative fatte di dubbi, rifacimenti e incompiute. Le stesse che segnarono la breve e fecondissima vita di Schubert, in particolare in quel 1820 che vide nascere il Quartettsatz in do minore. Primo tempo di un incompiuto dodicesimo Quartetto (rimane l’abbozzo del secondo movimento, quarantuno battute di Andante in la bemolle maggiore), questo Allegro assai resta superbamente autonomo nella sua potente, inesorabile drammaticità.
Puccini era all’inizio della carriera quando il 18 gennaio 1890 compose l’elegia per quartetto Crisantemi. Emozionante per l’assunto ispiratore, la morte prematura del duca Amedeo d’Aosta, lo è ancor più come serbatoio di idee per il tragico finale del primo capolavoro teatrale, Manon. Come è caratteristico di Puccini, l’invenzione musicale incarna la forma pura di un sentimento e non uno specifico concetto verbale, che veniva identificato solo a posteriori.
I due Valzer di Dvořák sono la versione per archi del primo e quarto compresi nella raccolta per pianoforte del 1880. Omaggio slavo all’asburgico re dei balli, con la loro seducente ebbrezza rotatoria invitano ad abbandonare la seriosa compostezza delle sale da concerto. A farci dimenticare ogni convenzione provvede Werner Thomas-Mifune. A dispetto del blasone che lo dice figlio di un Thomaskantor, un successore di Bach a Lipsia, ci regala un’irresistibile contaminazione tra papà Haydn e celebri citazioni latino-americane. Al confronto, lo Stravinskij del Tango, dall’originale per pianoforte del 1940, è un vero classico nell’adesione rigorosa al genere e nell’asciuttezza con cui l’ossessivo sincopato ne decanta l’afflato passionale. Ancor più irriverente di Thomas-Mifune, Wolfgang Schröder se la prende con Mozart e trasforma la classicissima Nacth-musik in una Lach-musik: una musica tutta da ridere: una collana di citazioni, tanto più inaspettate quanto più il tessuto compositivo le rende logicamente conseguenti.
Chiude Šostakovič, con la versione per quartetto (1931) di due pagine che ne rivelano i volti complementari: l’intensità lirica nell’Elegia, che nella Lady Macbeth del distretto di Mcensk è l’aria di Katerina nella terza scena del primo atto; la frenesia motoria nella Polka, che pure compare anche in un lavoro teatrale, il balletto L’età dell’oro.

Marina Verzoletto