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Siete qui: Home Festival Festival 2011 Il demonismo di Weber, le arguzie del primo Beethoven e l’esuberanza di Dvořák
Il demonismo di Weber, le arguzie del primo Beethoven e l’esuberanza di Dvořák PDF Stampa E-mail
C’è il mistero della notte e c’è l’evocazione della foresta selvaggia, quasi presenza immanente, in simbiosi coi suoi abitanti; sinistre presenze demoniache sottolineate da lugubri rintocchi e brividi soprannaturali; cori di cacciatori, canzoni popolari, la forza dell’amore e un tragico epilogo annunciato da funesti presagi. Insomma c’è un concentrato di topoi smaccatamente romantici nel weberiano Freischütz che ben si coniuga con le tematiche care a quella temperie culturale costituendone una delle più geniali espressioni. In sintesi: il guardacaccia Max, pur di non rinunciare all’amata Agathe, s’induce a patti col maligno per ottenerne pallottole magiche e vincere l’imminente gara; l’ultima pallottola, però, deviata dal perfido Samiel, dopo colpi strabilianti andati a segno, uccide Kaspar: ed è solo grazie ad Agathe e all’eremita che Max ottiene il perdono per la sua empietà. Vero e proprio manifesto di poetica, incunabolo di opera nazionale germanica concepita nello spirito di Hoffmann, Jean Paul e Novalis, Il franco cacciatore influenzò musicisti della levatura di Mendelssohn, Berlioz, Liszt e Wagner. Andò in scena a Berlino il 18 giugno 1821; Beethoven, che vi assistette a Vienna, si dichiarò subito tra i più strenui ammiratori dell’eccellente partitura di cui la superba Ouverture è un mirabile compendio, nonché un superbo saggio di strumentazione. Grazie alla lussureggiante veste timbrica e alla felice invenzione melodico-armonica, coi richiami boscherecci di corni e le evocative frasi dei clarinetti, assieme alla scena della Gola del lupo, essa conta tra i momenti più efficaci dell’opera prefigurandone l’atmosfera. C’è spazio per sbalzi d’umore, inquietanti frasi, esaltate accensioni, ma anche per reminiscenze dall’opera italiana, giù giù sino al giubilante epilogo, prossimo alle incandescenti atmosfere del brillante (e fortunato) Invito alla danza.
Banali circostanze fecero sì che il Concerto per pianoforte e orchestra op. 15 scritto nella chiara tonalità di do maggiore (la stessa del mozartiano Concerto K 503), venisse pubblicato quale Primo, quando Beethoven già aveva composto quello in si bemolle apparso come Secondo. La stesura dell’op. 15 risale agli anni 1795-98; quasi certamente l’autore l’eseguì a Praga nell’ottobre del 1798, salvo rimaneggiarlo in vista della première viennese (Burgtheater, 2 aprile 1800). La presenza di trombe e timpani esalta il “colore” militaresco del Concerto – in conformità ad una moda cui aveva reso omaggio Mozart stesso col citato K. 503 – colore evidente fin dalle prime misure dello scorrevole Allegro. Il solista entra con un tema suo, subito adeguandosi al clima festoso, tutto echi di inni rivoluzionari, e sfoggia poi passi di bravura di indubitabile presa che l’impongono all’attenzione, benché non manchino, qua e là, istanti di «raccolto intimismo». Scritto nella solenne tonalità di la bemolle maggiore (come il tempo lento della Sonata Patetica) il Largo dalla nobile cantabilità schiude orizzonti nuovi e inusitati, pur muovendo da un linguaggio ancor tutto classicheggiante. Estroverso, popolaresco e umoristico, l’arguto Finale dagli euforizzante ritmi di danza, possiede un carattere rude e bonario. Vengono in mente le parole di Schindler, famigerato famulus di Beethoven: «Fa spavento lei Maestro, quando è così allegro». Da sempre un curioso spunto che se ne viene fuori all’improvviso desta scalpore: certo, per quei suoi esibiti spostamenti d’accento, per quel basso di murky a ottave spezzate, ma soprattutto per quel sound quasi da samba sudamericano, in anticipo di un secolo e mezzo. E ancora: magiche atmosfere, dopo la cadenza con trillo d’ordinanza e un ultimo smagato tema, buttato là con nonchalance a meno di dodici battute alla fine. A dir poco prodigioso.
È alla “cinematografica” Sinfonia Dal Nuovo Mondo che Dvořák deve la sua popolarità. Ciò nonostante l’Ottava non le è certo inferiore quanto a ricchezza e spontaneità inventiva. La fresca luminosità che la caratterizza le assicura un singolare appeal. Abbozzata nel settembre del 1889 nella quiete agreste di Vysoká, venne completata a Praga durante l’inverno. L’autore la diresse il 2 febbraio 1890 presso il Rudolfinum; due mesi più tardi, eletto membro all’Accademia Boema delle Scienze, Arti e Letteratura, dedicò il lavoro all’Accademia stessa in segno di gratitudine. L’editore londinese Novello provvide alla stampa nel 1892. Intessuta di incantevoli temi di matrice folklorica, l’Ottava s’inaugura con una sorta di corale, ieratico e melanconico; ben presto però i richiami dei legni conferiscono una gioiosa effervescenza all’Allegro dagli ottimistici profili. Con la comparsa del secondo tema, colmo di tenerezza, ecco che spira un’aura di soave pacatezza; ma l’intera orchestra subito riprende quota, ribadendo la giovialità dell’Allegro, non privo di concitazioni e clangori. Poi tutto si placa riguadagnando la serenità iniziale, prima della trionfante coda. Quanto all’Adagio, vero nucleo emotivo, «enigmatico e magnifico» col suo tono rapsodico, l’incedere mutevole e i flebili pizzicati, alterna con charme suadenti accenti e vaghe increspature, cantabilità e impennate. Ritmi aitanti e robuste scansioni convivono accanto a una struggente melopea del violino. Se nell’Allegretto s’ammira un carezzevole valzer dai delicati effluvi che ricorda la Serenata per archi op. 22 e così pure la Dumka del Quintetto op. 81, ecco che l’Allegro finale s’annuncia con una sfavillante fanfara dal piglio cavalleresco. Episodi innervati di energetico vitalismo attingono al fondaco delle danze slave. S’affaccia perfino una ruvida marcia memore di settecentesche turcherie. Da ultimo una fantasmagoria di sgargianti sonorità a ribadire l’esuberante allure che dell’Ottava è il tratto peculiare.

Attilio Piovano