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Siete qui: Home Festival Festival 2011 Dalle vivide suggestioni di un “programma”, alla purezza del linguaggio in dissoluzione
Dalle vivide suggestioni di un “programma”, alla purezza del linguaggio in dissoluzione PDF Stampa E-mail
Webern compose nel 1908 quella Passacaglia per grande orchestra che in seguito sarebbe stata identificata col numero d’opera 1 del suo essenziale catalogo. Si concludeva in quel periodo il quadriennio di studi con Arnold Schönberg, mentre fu proprio questa seducente pagina orchestrale (con un organico “convenzionale” che egli non avrebbe più utilizzato in futuro) a segnare il momento di sintesi delle sue esperienze giovanili e a un tempo il definitivo distacco dal mondo musicale del tardo romanticismo, con l’affermazione di una personalità ormai indipendente e sul punto di incamminarsi verso orizzonti linguistici radicali. Strutturalmente la Passacaglia consta di 23 variazioni che si articolano da un tema di otto note, con un’ampia sezione conclusiva dal carattere di libero sviluppo e ripresa; ma se l’adozione della rigorosa forma del XVII secolo è d’altronde un esplicito omaggio al Brahms della grande passacaglia finale della Quarta Sinfonia, l’originalità di quest’opera non è sminuita dalle tracce di influenze schönberghiane né dalle estreme e sensuali tensioni del lessico tonale (che pur attraverso singolari sperimentazioni “verticali” resta saldamente ancorato a re, minore all’inizio e alla fine, maggiore nella parte centrale) evidentemente riconducibili alle ultime sinfonie di Mahler. Essa infatti distilla già in sé tutti i germi di quel microcosmo fatto di cristallina e aforistica austerità che da lì a poco distinguerà l’autentica e inconfondibile fisionomia stilistica del suo autore, come ben ricorda il biografo Hans Moldenhauer: «impiego cameristico degli strumenti, economia e trasparenza a dispetto del grande apparato orchestrale, invenzione contrappuntistica nella ricchezza delle trasformazioni tematiche, ampio uso delle terzine, dinamiche sommesse e infine, il silenzio come elemento strutturale».
Les préludes, eseguito per la prima volta a Weimar nel 1854, è invece il terzo e più noto dei tredici poemi sinfonici scritti da Liszt; e anch’esso come gli altri – del resto come tutti i suoi lavori sinfonici – scaturì dall’esigenza di comporre musica “a programma”, traendo cioè ispirazione da un testo letterario o comunque da suggestioni extramusicali. Liszt fu l’ideatore del genere del poema sinfonico, animato per tutta la vita dalla necessità interiore di realizzare un ideale assoluto di musica “poetico-letteraria”, ritenendolo la più alta espressione di autonomia artistica possibile. In questo caso l’associazione de Les préludes all’omonimo componimento del 1823 di Alphonse de Lamartine (parte della raccolta Nouvelles méditations poétiques) fu tuttavia un adattamento, poiché il pezzo era stato scritto precedentemente (1844-1848) come ouverture a un’opera per coro maschile e pianoforte dal titolo Les quatre éléments, su testo del poeta provenzale Joseph Autran. Per questa ragione, nonostante il musicista abbia rimaneggiato sostanzialmente la partitura restituendone una composizione sinfonica a sé stante, il nesso con i versi del poeta è vago e perlopiù limitato al generico contrasto di sentimenti amore-morte, sebbene le parole di Liszt stesso (o forse della dedicataria dell’opera, la Principessa Carolyne von Sayn-Wittgenstein, sua estimatrice e amante) parafrasando Lamartine chiariscano nelle note di sala della prima: «Che cos’è la vita se non una serie di preludi a un inno sconosciuto, la cui prima e solenne nota viene intonata dalla Morte?». Les préludes dipinge così la lotta umana per l’esistenza, nella continua trasformazione del materiale tematico di base, rimodellato in sempre nuovi motivi attraverso i vari episodi del poema, scanditi da accesi stati d’animo ora appassionati, ora pastorali, ora marziali e ora tempestosi, fino all’imponente sezione conclusiva in cui con spirito di esaltante affermazione trionfa una raffigurazione eroica e vitale del Destino.
Così, con singolare affinità di intenti, quando Čajkovskij affermò che la sua Sinfonia n. 4 era nata da «una riflessione sulla Quinta Sinfonia di Beethoven», egli non si riferiva certamente ai contenuti linguistici, ma piuttosto al carattere pervasivo di quel tema centrale “del Fato” che nella sua Op. 36 esordisce ex abrupto con una tragica fanfara introduttiva in fa minore affidata a corni e trombe, per tornare ossessivamente e ciclicamente nei fondamentali nodi di articolazione formale del primo come dell’ultimo movimento. Anche qui dunque un esplicito richiamo al destino avverso che pende inesorabile sopra le nostre teste come «un’invincibile spada di Damocle […] un’ombra costante che ostacola il raggiungimento della felicità […] una sorta di veleno implacabile per l’anima», secondo quanto scritto da Čajkovskij stesso in una lettera a Nadezhda von Meck, dedicataria dell’opera («A mon meilleur ami») e benefattrice che lo sostenne e incoraggiò durante un lungo rapporto epistolare nutrito da profonda affinità spirituale. Ultimata nel 1878 dopo oltre un sofferto anno di lavoro, la Sinfonia rivela così il programma letterario che l’ha ispirata, mentre la complessa dilatazione formale del primo movimento (che dura quasi come gli altri tre insieme, tanto da indurre alcuni critici coevi a considerarlo come un brano a sé) sembra frutto di un’intenzione espressiva che si distacca dalla tradizione classica, trovando maggiori affinità in quella del poema sinfonico. È l’esuberanza della forza poetica di Čajkovskij, la quale parla sempre in un lessico emotivamente diretto e spesso brutale, sull’onda di un’energia creativa ricca di prospettive cangianti e invenzioni allucinate in cui la palpabile deflagrazione dei conflitti interiori si presta talvolta alla deformazione grottesca e autoironica.

Federico Scoponi