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Siete qui: Home Festival Festival 2011 Šostakovič e Brahms
Šostakovič e Brahms PDF Stampa E-mail
Noto semplicemente come Concerto n.1 per pianoforte e orchestra, il brano eseguito nella presente occasione reca invero il titolo Concerto per pianoforte con accompagnamento di orchestra d’archi e tromba. E la precisazione si rende d’obbligo perché proprio di ciò si tratta. Il pezzo, che Šostakovič compose nemmeno trentenne come segmento di un articolato programma – poi solo parzialmente realizzato – destinato ad ampliare il repertorio strumentale sovietico, vede infatti lo strumento solista come chiaro protagonista, mentre la tromba assume una parte di rilievo ma comunque subordinata rispetto alle linee pianistiche, di cui costituisce una sorta di contrappunto umoristico. Del resto, questo è un brano che trasuda umorismo e gioia di vivere. Non a caso l’autore ha scritto: «voglio difendere il diritto di ridere nella musica seria». Benché non manchino passi riflessivi, dove l’ascoltatore non fatica a rintracciare miniature dello Šostakovič delle Sinfonie, il materiale è tutto pervaso da motivi di danza, di musica popolare e di citazioni parodistiche (nel senso appunto caricaturale del termine) di temi piuttosto noti al pubblico del tempo, tratti dall’Appassionata di Beethoven, da Haydn, da canzoni ebraiche di Odessa e dalla sua stessa opera giovanile Il povero Colombo. La tecnica del montaggio a collage di tali materiali e la leggerezza, ora irriverente e scanzonata ora graffiante e grottesca, della loro natura ha fatto tra l’altro pensare che Šostakovič intendesse rievocare qui le atmosfere tipiche delle colonne sonore per il cinema. Nondimeno, il brano non rinuncia a un’organizzazione formale di impronta classica, anche se tra i due tradizionali movimenti veloci – il clownesco Allegretto iniziale e il sarcastico Allegro con brio conclusivo su divertente ritmo di galop – non è compreso un solo tempo lento ma un Lento vero e proprio in tempo di Valzer e un Moderato, dove fa occhiolino quella ispirata vena romantica che il compositore non avrebbe mai abbandonato del tutto anche nelle opere a venire.
Il “complesso dei classici”, o se si preferisce la “sindrome di Beethoven”, variabili che segnano nel bene e nel male la storia del sinfonismo romantico, sembrano giustificare la lunghissima gestazione della Sinfonia n. 1 di Johannes Brahms. Fu composta infatti tra il 1862 e il 1876: un tempo incredibilmente lungo per Brahms, che nei suoi soggiorni estivi, libero dagli impegni concertistici, era solito licenziare quattro o cinque opere per volta. Non fu un tempo continuativo, ad ogni modo, perché al 1862 risale il primo movimento (privo però dell’introduzione lenta, aggiunta in seguito), mentre, pur non potendosi escludere che l’autore avesse annotato abbozzi e singole parti negli anni seguenti, la maggior parte di questa composizione risale all’estate 1876.
A fine settembre la Sinfonia n. 1 è pronta e c’è appena il tempo per prepararne l’esecuzione, che Brahms nel frattempo ha deciso di concedere la “prima” alla cittadina di Karlsruhe, sia per la qualità dell’orchestra locale sia per la buona accoglienza che sue precedenti composizioni vi avevano avuto. Il 4 novembre l’opera, diretta da Felix Otto Dessoff, è eseguita con successo e lo stesso accade tre giorni dopo a Mannheim (con la gloriosa compagine locale diretta dallo stesso Brahms) e poi ancora a Monaco (dove è accolta con qualche resistenza), nella wagneriana Lipsia (successo calorosissimo), a Breslavia. E così fino alla “vera” prima, a Vienna, il 17 dicembre, che fu preceduta da una esecuzione, destinata solo alla critica, della versione per pianoforte a quattro mani. I critici si dividono ma il successo di pubblico arride unanime. E se è inferiore a quello che i viennesi avrebbero tributato l’anno dopo per la Sinfonia n. 2, è comunque tale da indurre l’autore a ritenere superata la prova e a volersi presto ripetere in quest’ambito tanto impegnativo. Le altre Sinfonie, i nuovi Concerti, le due Ouvertures sono alle porte.
Ma fu veramente la “sindrome di Beethoven” il motivo che impedì a Brahms di accontentare i numerosi estimatori che lo assillavano con la richiesta di prodursi finalmente nel glorioso genere orchestrale? Difficile dirlo, tuttavia non sembra affatto peregrina la tesi suggerita al riguardo da Christian M. Schmidt: l’avere cioè atteso Brahms così a lungo non tanto per paura di misurarsi col fantasma beethoveniano, quanto soprattutto per il desiderio di assimilare la scrittura per il medium orchestrale, fino a impadronirsi completamente dei suoi segreti. In fondo, a chi osservi il catalogo dell’amburghese precedente al 1876, non sfuggirà che i territori del pianismo, del liederismo, della musica corale e cameristica erano stati esplorati in lungo e in largo, senza tema di confrontarsi con i rispettivi numi tutelari, mentre quello orchestrale comprendeva soltanto due convenzionali Serenate giovanili, il problematico Concerto per pianoforte in re minore e solo un’opera recente, ossia le Variazioni su un tema di Haydn, del 1873.
In numerose lettere Brahms aveva confidato a Clara Schumann di sentire di non possedere completamente il linguaggio sinfonico, poiché c’era sempre qualcosa che gli sfuggiva nel trattare i timbri orchestrali; e che in fondo proprio per questo si era cimentato con le Haydn Variationen, come per saggiare le possibilità dell’orchestra in un’opera che per altri aspetti, e segnatamente per la forma, non gli desse alcun problema, essendogli così congeniale il principio della variazione, a lungo sperimentato in numerose composizioni pianistiche e cameristiche del passato.
Non era la forma sinfonica che Brahms temeva, dunque, ma il trattamento del timbro orchestrale. E non a caso lo studio della fortuna critica di questa stupenda creazione insegna che se mai ad essa furono mossi dei rilievi, questi ultimi non riguardarono il profilo formale – di rara solidità – quanto piuttosto quella certa grevità, del resto tipicamente nordica, degli impasti timbrici, oltre a quella severità d’eloquio che ai detrattori della prima ora parve eccessiva.
Eccessiva o meno, tale severità non è altro che la naturale conseguenza di una scrittura molto elaborata polifonicamente, quale del resto era tipica dello stile del musicista, viennese d’elezione ma formatosi nell’austero rigore del Nord della Germania e dotato di un magistero contrappuntistico che non ha paragoni con quello di nessun altro collega del tempo.
Ciò, al di là delle iperboli di quella critica che subito si chiese quanto l’opera partecipasse della scrittura sinfonica di Beethoven, spiega anche come il modello formale del sinfonismo viennese, pur presente, certo, all’autore, fosse ultimamente estraneo, se non allo spirito, alla sostanza della forma che Brahms volle dare a questa Sinfonia. Rivisitata in termini meramente morfologici essa presenta infatti una geografia tematica inusuale per ampiezza ma in fondo estranea alla filosofia dualistica del bitematismo classico, tanto che un osservatore pure attento come Claude Rostand vi elenca, per stare al solo primo movimento, ben tre temi principali e cinque secondari, dando vita ad un catalogo che, a Sinfonia conclusa, elenca tanti elementi tematici quali non si rintracciano probabilmente nemmeno in tutto il corpus delle Sinfonie beethoveniane.
Il fatto è che qui è già operante la logica della variazione di sviluppo tipica dello stile maturo di Brahms, tale per cui il cemento costruttivo, anziché di temi veri e propri, è fatto di piccoli e nervosi motivi ritmico-intervallari destinati a modificarsi e combinarsi tra loro in situazioni sonore di perenne instabilità: un brulicare di elementi derivati l’uno dall’altro, di cui il “tema” vero e proprio non è che una delle manifestazioni possibili: tanto che bisogna attendere l’ultimo movimento per trovare temi tradizionalmente intesi. Trattasi, non a caso, di due “citazioni”, ossia del cosiddetto “tema di Clara” (presentato dapprima dal corno e poi dal flauto nell’introduzione lenta, esso si chiama così in quanto vergato da Brahms su una cartolina destinata alla vedova di Schumann, con annessa spiegazione della valle alpina dove egli l’aveva udito per la prima volta) e del tema principale del movimento, che come è stato ampiamente osservato, è un omaggio abbastanza esplicito proprio al Beethoven dell’ultima Sinfonia.

Enrico Girardi

 

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