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Siete qui: Home Festival Festival 2010 Vita d’eroe
Vita d’eroe PDF Stampa E-mail
Un monumento a se stesso. Come un’onda di marea l’imponente massa sonora di Vita d’eroe (Ein Heldenleben) di Richard Strauss travolge l’ascoltatore. Lo stordisce, lo inebria del suo cromatismo. Velenoso e dolcissimo. Nella trama di questo poema sinfonico il compositore tedesco, ai tempi direttore dell’opera di corte prussiana, ha innestato la propria esperienza biografica: «Il programma di Ein Heldenleben era pronto nella mia mente prima che io componessi la musica». Un’autobiografia in musica a soli trentacinque anni (la prima esecuzione è del 1899) sembra ed in effetti lo è un peccato di superbia. Del resto Strauss incarnava come pochi la figura del superuomo nell’arte. Un superomismo tenace, se ancora nel giugno del 1949, pochi mesi prima della morte, poteva scrivere che nelle sue opere era «presente manifestamente l’uomo» come era accaduto, addirittura, «solo in Beethoven»!
C’è una foto del 1908 che lo ritrae in occasione dell’inaugurazione della residenza di Garmisch: lui è seduto in primo piano come un monarca, con a debita distanza il gruppo della servitù e sullo sfondo la mole imponente della villa. Come e forse più di Wagner, Strauss si è sempre autocelebrato. Lo dimostrano anche l’organico di Ein Heldenleben, con un numero smisurato di fiati (8 corni, 5 trombe, 2 tube e tutte le parti dei legni a 4), e le citazioni dei poemi sinfonici Macbeth, Don Juan, Morte e trasfigurazione e Don Chischiotte, allineati nel quinto movimento quasi a formare una galleria virtuale dei capolavori straussiani. Invece nel terzo movimento il ritratto della moglie (a lei allude il violino solista) rimanda a liriche atmosfere domestiche ed a piccoli screzi familiari. Il ritratto è evidentemente idealizzato, perché questa moglie, la cantante Pauline de Ahna, aveva un carattere terribile e non si faceva scrupoli nell’umiliare il povero Richard in pubblico, come quando nel corso di una prova gli scagliò addosso sulla testa, sembra la partitura del Guntram.

Senza dubbio la musica schubertiana è agli antipodi della retorica nazional-piccolo-borghese di Strauss. Eppure Strauss ammirava Schubert. «Una sola volta mi sono soffermato anch’io a riflettere sulla Fantasia Wanderer […]. Per il resto su Schubert non ho riflettuto, proprio no: lo ho soltanto adorato, suonato, cantato e ammirato!». Ed entrambi ammiravano Beethoven, a conferma della profonda unità della tradizione musicale austro-tedesca, un’unica linea da Bach fino a Schönberg, a dispetto dei passaggi epocali e delle fratture stilistiche. Nella Sinfonia n. 4 di Schubert le influenze beethoveniane sono evidenti nell’introduzione iniziale (la stessa tonalità di Do minore rimanda alle composizioni più drammatiche di Beethoven, come la sonata per pianoforte Patetica e la Quinta Sinfonia) e nell’Allegro conclusivo. Evidenti ma poco significative sul piano estetico. Infatti il movimento più originale della sinfonia, uscita dalla penna di uno Schubert appena diciottenne, è l’Andante (il tema riapparirà in un celebre Improvviso per pianoforte, l’op. 142 n. 2), in cui il fantasma di Beethoven si dilegua, lasciando al lirismo la possibilità di spiegare le sue ali.

Luca Segalla