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Siete qui: Home Festival Festival 2010 Skrjabin e Beethoven
Skrjabin e Beethoven PDF Stampa E-mail
Nel 1893 Jean Sibelius musicò per coro misto tre testi tratti da una raccolta di poesie popolari, che lo scrittore Elias Lönnrot aveva pubblicato nel 1840. La composizione fu intitolata L’innamorato. Nel 1898 compose poi una seconda versione del pezzo per coro maschile e orchestra d’archi. Ma il brano che si ascolta all’inizio del presente concerto corrisponde a una terza e definitiva versione, pubblicata nel 1911, destinata a un ensemble formato da archi, timpani e triangolo. Essa mantiene in ogni caso la tripartizione originaria e i tre movimenti di questa Suite si intitolano 1. L’innamorato. 2. La via dell’amante. 3. Buona notte, amore mio. L’opera riflette il periodo in cui fu originariamente composta, quando Sibelius, molto influenzato dalla tradizione musicale scandinava, amava distinguersi per la profondità dell’empito melodico e una raffinatezza armonica di sapore tardoromantico. Beethoven compose il Concerto n. 5 per pianoforte e orchestra nel 1809, un anno artisticamente felice nel quale licenziò altri capolavori come il Quartettodelle arpe” e la Sonata Les Adieux”. La prima esecuzione ebbe luogo in forma semiprivata al Gewandhaus di Lipsia il 28 novembre 1811 con Friedrich Schneider solista e Christian Schulz direttore, mentre la prima esecuzione pubblica risale al 12 febbraio 1812, quando il Concerto fu eseguito da quel colosso della tastiera che era Carl Czerny. È pagina ampia e grandiosa che l’autore avrebbe intitolato Gran Concerto ma che l’editore Cramer battezzò “Imperatore” per la magniloquenza, la fierezza e la “definitività” dello stile. E a proposito di cose definitive, una domanda che l’opera pone agli ascoltatori sortisce proprio dalla constatazione del suo essere non solo l’ultima della serie per pianoforte e orchestra (eppure Beethoven sarebbe vissuto altri 18 anni) ma l’ultima del genere concertistico tout court. Strano cioè che il compositore di Bonn, strumentalista autentico, abbia abbandonato questa parte significativa del suo catalogo proprio quando, con l’Imperatore e il precedente, bellissimo Quarto, era venuto apportandovi gli esiti più originali e innovativi. E ancora, un virtuoso del pianoforte come Beethoven, che soprattutto su tal strumento fondava le sue possibilità di affermazione, è strano che prese a ignorare un genere che, esaltato da Mozart, continuava a esser frequentato dai musicisti attivi a Vienna all’inizio del secolo: Eberl, Cambini, Kozelu, Gelinek, Hoffmeister… D’altra parte non è fuori luogo il pensiero di chi ravvisa in questa composizione una sorta di celebrazione della fine di un’epoca e, con quell’epoca, di uno dei generi che l’ha celebrata: l’epoca appunto dello stile eroico, visto non più come strumento di un progetto rivoluzionario, ovvero dell’aspirazione a cambiare il mondo col suono dei cannoni, ma come oggetto di pura contemplazione estetica. In altre parole, ricorda l’“Eroica” il Quinto Concerto. Ma è come un’Eroica depauperata dell’animo battagliero che vi è profuso e dei contenuti emotivi che le danno forma. Un poderoso accordo orchestrale troneggia quale incipit della composizione: una spettacolare apertura di sipario. Il solista risponde all’orchestra in questo inizio di Allegro in 4/4 con una ampia serie di progressioni di semicrome, ripetute dopo altri due veementi “fortissimo” dell’orchestra. È questa una sorta di anticipazione della cadenza solistica che precede l’avvento del primo tema, ampio e solenne, degli archi, seguito da una singolare seconda idea prodotta dai violini col supporto di viole, violoncelli e clarinetti. Nello sviluppo di tale materiale si notano poi le rigogliose figurazioni dei legni (del fagotto, in particolare), stilemi “eroici” come la ripresa a tutta orchestra del secondo tema e la scrittura pianistica per ottave in successione, con estesa escursione delle mani e con una incisività ritmica di piena, sfacciata aggressività. Tanto più sorprendente giunge dunque il successivo Adagio un poco moto, in cui Beethoven crea un’immagine di dolce e serena elegia notturna paragonabile a quella del corrispettivo movimento del Concerto per violino. Un altro elemento di contrasto con l’enfasi retorica dell’Allegro viene poi dal lungo, sospeso, astratto fraseggiare della linea pianistica: una linea iridescente, lunare, che conduce l’ascoltatore ai confini degli incanti del mondo fantastico, lunare e notturno di Carl Maria von Weber. Annunciato sommessamente dal pianoforte, il tema del Rondò riporta in auge invece il clima festoso del primo tempo. Piuttosto che eroica, l’intonazione è ora umoristica, popolaresca. Il motivo centrale è formato da due frasi principali ed è segnato da un moto sincopato messo a contrasto da un’idea melodica discendente del solista che costituisce una sorta di sfumatura interrogativa. Il piglio ritmato del tema ha comunque il sopravvento. L’orchestra si gonfia di spessore fino alla esplosione vigorosa e appassionata della coda finale, con un intervento di estrema potenza del Solo che prelude al definitivo, stentoreo intervento del Tutti. Nel sinfonismo tra Otto e Novecento, un indirizzo originale e moderno, tutto soffuso di elementi decadentistici come la morbida psicologia, l’esasperazione sentimentale e l’esoterismo teosofico, pervade le cinque composizioni per orchestra di Aleksandr Skrjabin. Di queste, le prime tre sono numerate in modo tradizionale (pur recando anche un titolo programmatico), mentre le altre due, titolate Poema dell’estasi e Poema del fuoco, si ascrivono al genere del Poema sinfonico. La Sinfonia n. 3, detta anche Poema divino, risale agli anni 1902-03 e fu eseguita per la prima volta allo Châtelet di Parigi il 29 maggio 1905, diretta da Arthur Nikisch. Essa reca un programma nel quale si immagina che i tre tempi rappresentino altrettanti momenti della «evoluzione dello spirito umano che, sottratto a un passato di credenze e di misteri, perviene, dopo aver attraversato il panteismo, alla affermazione ebbra e felice della propria libertà e unità con l’universo». La paternità di tale programma, redatto dopo che la Sinfonia era già stata interamente composta, non è tuttavia di Skrjabin ma di Tatiana de Schloezer. L’opera dunque è una sinfonia vera e propria e non un poema sinfonico, a maggior ragione se si considera che il primo e il terzo tempo sono strutturati secondo lo schema classico della forma-sonata, mentre il tempo centrale rispecchia la scansione episodica della forma-lied. Un particolare peso strutturale riveste il tema, perentorio e affermativo, che si ascolta nell’incipit: tema che denuncia una chiara influenza wagneriana e che informa, in modi diversi, i materiali di tutti e tre i tempi della composizione, che si eseguono senza soluzione di continuità. Il principio dell’unità nella varietà è dunque rispettato.

Enrico Girardi