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Siete qui: Home Festival Festival 2010 Il contrappunto di Bach e Schumann
Il contrappunto di Bach e Schumann PDF Stampa E-mail
Le Suite inglesi di J.S. Bach risalgono agli anni di Köthen indicativamente in modo molto approssimativo tra il 1720 e il 1722; la loro composizione si ritiene preceda quelle francesi. L’amore del giovane principe Leopoldo per la musica da camera, l’orchestra, gli strumenti a tastiera sono per il compositore un incentivo a dedicarsi ai generi strumentali e creano le condizioni per uno dei momenti di grande soddisfazione della sua carriera. Le Suite inglesi, destinate al cembalo e non al clavicordo, rispetto alle precedenti hanno un impianto più omogeneo, unitario e ampio, ma soprattutto i Préludes introduttivi ne sono il tratto più caratteristico, grazie ai quali assumono una dimensione grandiosa; sono pagine di estensione considerevole nella Suite III di ampiezza eccezionale la cui forma è nello stile del concerto grosso italiano, anche se come osserva Alberto Basso ognuna segue un iter, un processo costruttivo di volta in volta diverso. Inglesi di nome forse solo per il fatto di essere state scritte per un nobile inglese, sicuramente invece di gusto francese per quanto riguarda le danze che le costituiscono, ricche di abbondanti ornamentazioni e fioriture, addirittura con il ricorso ai doubles, ripetizioni variate del brano.
Schumann nel 1845 appena uscito da una crisi depressiva scrive degli studi per quell’originale strumento ibrido che è il pianoforte a pedali, pedalflügel. Perciò nei Sei pezzi a canone op. 56 non sorprende che il primo ricordi lo stile bachiano e organistico, subito abbandonato nel brano seguente, dove è protagonista una melodia patetica, come nel dolce e fluente Andantino in terza posizione, fino all’ultimo movimento che ci riporta al canto elegiaco tipico di Schumann.

I Gesänge der Frühe (Canti dell’alba) op. 133 nascono sotto l’impressione profonda della visita di Brahms che Schumann riceve nell’autunno 1853 e dell’ascolto delle sue prime opere. Queste pagine sconvolgenti e allucinate vengono terminate in pochi giorni e sono l’ultima opera compiuta dal compositore sulla soglia della follia; il ciclo è dedicato «all’eccelsa poetessa Bettina», Bettina Brentano, amica di Beethoven e Goethe, che nell’immaginazione di Brahms si sovrappone a Diotima, l’ispiratrice di Hölderin ormai demente. Sono visioni scarne e vaghe che non descrivono un’alba pallida, ma l’emozione che suscita contemplarla. Il primo brano, pervaso da una pace religiosa, ha armonie dissonanti, aspre, straziate che sono state paragonate a quelle di Bach, risultato le une e le altre di una logica suprema della scrittura contrappuntistica. Il secondo pezzo sembra un corale triste e, privo dei tempi forti, è malfermo e affannato; l’Animato centrale pare una corsa su un ritmo ossessivo verso un abisso, alla quale segue un canto ampio e dolente; infine, a conclusione l’ultima breve composizione che si sviluppa come un’elaborazione inquietante di un corale fino a un approdo forse sereno, ma vacuo, sull’orlo della vertigine ipnotica, dell’oblio.

Monica Rosolen