Concordia discors Stampa

Strano matrimonio, tra violino e tastiera. In principio era il cembalo raddoppiato al grave dalla viola da gamba: sosteneva il solista con la discrezione del basso continuo. Nel Settecento inoltrato, l’invadente pianoforte ridusse il violino ad accompagnatore superfluo. Altra fu la lezione di Bach, consegnata in sei magistrali Sonate «à Cembalo certato è Violino solo, col Basso per Viola da Gamba accompagnata se piace» (1718-1722). Metterci il basso di viola non piace quasi a nessuno: in un altro manoscritto sono chiamate «trii per tastiera e violino». La scrittura è a tre parti, due voci alla tastiera e la terza al violino, spesso in contrappunto imitativo. L’antica «sonata a tre», due violini e basso continuo, per un totale di quattro esecutori, sintetizzata in due soli interpreti si fa dialogo concertante tra attori di pari dignità. Dell’antenata mantiene la struttura in quattro tempi alternanti Adagio e Allegro. La Quarta Sonata, in un do minore elegantemente malinconico, si apre con una cullante Siciliana: il dominio melodico del violino è insidiato dalla varietà delle figure di accompagnamento. Il vasto Allegro fugato esibisce assoluta parità tra le tre voci nello scambio del materiale tematico. Nel fascinoso Adagio nella nobile quiete del mi bemolle maggiore, con indicazioni di forte e piano rarissime in Bach, le voci svolgono disegni contrastanti – scorrevoli terzine nella mano destra del cembalo, solenni ritmi puntati al violino – che confluiscono nell’abbraccio della cadenza finale. L’Allegro finale, malgrado l’impeto danzante, torna al rigoroso stile fugato.
Il culto che Ferruccio Busoni rendeva a Bach traspare nella Sonata in mi minore op. 36a (1898-1900), nella densità ed elevatezza del linguaggio, memore anche del retaggio romantico. L’ampio disegno formale è articolato in tre sezioni senza soluzioni di continuità e con rimandi tematici unificanti. La prima sezione si apre con un Langsam (Lento) che si anima progressivamente, sfociando in un episodio dall’energia ritmata (Poco con moto, assai deciso), per ripiegare sull’eco nostalgica del motivo iniziale. La seconda sezione è un Presto dai toni di Scherzo, pausa giocosa dello spirito. Il misterioso Andante, piuttosto grave introduce un motivo ascendente che sembra cercare identità; la trova nell’Andante con moto, ed è un corale bachiano che canta il fiducioso abbandono all’amore di Dio. Il corale è oggetto di una serie di variazioni, che conducono la melodia a un culmine di splendore espressivo: «apoteotico», indica la partitura.
Arrivare a Webern dopo il tumultuare tardoromantico di Busoni è come fermarsi al limite del silenzio. Eppure anche nei piccolissimi Quattro pezzi op. 7 (1910-1014) è in questione la concordia discors tra i due strumenti. Più evidente è la ricerca di novità timbrica sul violino: in pochissime battute l’interprete è chiamato a scovare sonorità sempre diverse facendo uso delle tecniche più varie (armonici, sordina, col legno) e rispettando richieste dinamiche come «quasi inudibile». Ma il pianoforte ha un impegno analogo, con specifiche risorse: in ogni momento il suono viene reinventato secondo un percorso coerente, perfettamente compiuto nella sua brevità.
Il genio essenzialmente pianistico di Schumann si accostò alla sonata per violino con due lavori del 1851. La Zweite Grosse Sonate in re minore ha il colore scuro e introverso tipico della sua tarda creatività e dà poca soddisfazione al virtuoso dell’arco in cerca di brillanti funambolismi. Si sviluppa nei canonici quattro movimenti. Il primo è carico di energia melodica; lo Scherzo (Molto vivace), teso e appassionato, prolunga la sua eco ritmica a increspare la delicata serenità del tempo lento. Inesausto slancio romantico spinge l’incalzante moto perpetuo del finale.

Marina Verzoletto