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Siete qui: Home Festival Festival 2010 Benevoli e Pergolesi, due destini fortunati
Benevoli e Pergolesi, due destini fortunati PDF Stampa E-mail

Una coincidenza fortuita quanto fortunata accomuna la biografia del compositore romano Orazio Benevoli (1605 – 1672) a quella del compositore napoletano (ma originario di Jesi) Giovanni Battista Pergolesi (1710 – 1736). Entrambi autori di musiche da loro mai scritte… La grandiosa Messa a 53 voci e l’inno Plaudite tympani, che avevano salutato con magnificenza la consacrazione del Duomo di Salisburgo nel 1628, furono attribuiti erroneamente a Benevoli; sono, invece – stando alle ultime ricerche – da assegnare al compositore austriaco Ignaz von Biber. Tuttavia si deve a questo errore la fama postuma di Benevoli, il quale, all’epoca aveva solo ventitré anni e solo da poco occupava il posto di maestro di cappella in S. Maria in Trastevere…
Il caso di Giovanni Battista Pergolesi è, per altri versi, più complesso, e, in un certo senso, doloso in quanto furono gli editori, soprattutto inglesi, a sfruttarne la fama dopo la sua morte facendo passare sotto mentite spoglie pagine che non erano all’altezza del celebre autore de La serva padrona e dello Stabat Mater (per inciso ricorderò che ancora novant’anni fa il catalogo pergolesiano presentava diversi dubbi e nel 1919 Igor Stravinskij, accingendosi a comporre il balletto Pulcinella su elaborazione di musiche d’epoca aveva utilizzato, credendole autentiche, pagine strumentali di oscuri compositori... Recentemente Mariangela Donà ha individuato la fonte principale del lavoro stravinskiano in un autore che non è nemmeno napoletano ma milanese).
Tornando a Orazio Benevoli, gli storiografi del ’700 come padre Martini e Charles Burney riportano notizie imprecise, ma nel ’600 la sua musica era tenuta in grande considerazione. Nella Lettera ad Ovidio Persapegi Antimo Liberati, teorico di fama, affermava che Benevoli avanzava «il proprio maestro, e tutti gli altri viventi nel mondo di armonizzare quattro e sei cori reali (…), e con le imitazioni de’ pensieri pellegrini, e con le fughe rivoltate, e con i contrapunti dilettevoli (…) ha ben saputo vincer l’invidia con la sua virtù, ma non la sua povertà…». Secondo questa testimonianza la musica di Benevoli avrebbe seguito soprattutto la tradizione della grande polifonia di Palestrina. Non è così. Nella seconda metà del ’600 anche Roma avvertì la novità dello stile concertante d’ispirazione teatrale. È merito del lavoro di ricerca del Centro di Musica antica Pietà de’ Turchini se è venuto alla luce un manoscritto di Benevoli conservato nella biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli, e contenente il Salve Regina che ascoltiamo questa sera. Si tratta di un lavoro che mostra il lato “moderno” di Orazio Benevoli, non insensibile al vento monteverdiano e alle esperienze romane dei suoi predecessori: da Girolamo Frescobaldi ad Antonio Cesti e Bernardo Pasquini, attivi nel seguire i dettami della teoria degli Affetti. Nel Salve Regina, simile a una cantata spirituale solistica, emerge la linearità espressiva e lo struggimento della voce di contralto (più scura del soprano) che modula sopra il tessuto degli archi, il testo latino dell’antifona medievale.
Naturalmente il confronto con Pergolesi è tutto a vantaggio di quest’ultimo. Pergolesi ha indubbiamente delle carte in più da giocare: la naturalezza nel fraseggiare, un salire e tornire poco a poco la melodia portandola al suo acme, e inoltre la capacità di marcare con accordi “in ritardo” l’espressione del dolore, la leggerezza dell’accompagnamento strumentale… Il suo Salve Regina e lo Stabat Mater, sono teatro e insieme icona religiosa: due modalità inscindibili per il calore dell’emozione che vi si sprigiona, e per la capacità della scrittura musicale di variare il movimento e le inflessioni psicologiche (ora calme, ora mosse e infervorate). Si comprende, allora, ascoltando le sue opere, quanto degnamente il compositore napoletano, destinato a una morte precoce (26 anni portati via dalla tisi!) sia diventato personificazione di uno stile inimitabile – una star, diremmo oggi – già a partire dallo strepitoso successo parigino nel 1752 de La serva padrona che innescò la Querelle des Buffons tra lullisti, cioè fautori dell’ampolloso stile teatrale francese e italianisti favorevoli alla schiettezza di un melodramma-comico, o meglio buffo e popolare (tra questi, con adesione incondizionata, c’era Jean-Jacques Rousseau). E si comprende, infine, l’ammirazione di Bach che all’inizio degli anni Quaranta del ’700 trascrisse lo Stabat Mater rielaborandone il testo sulla versione tedesca del Salmo 51, Tilge, Höchster, meine Sünde BWV 1083.
Momenti particolarmente belli del capolavoro sacro di Pergolesi sono – per fare solo due esempi – Quae moerebat et dolebat e Inflammatus et accensus, dove ad alleggerire la tensione drammatica soccorre la tonalità maggiore, creando motivi che si imprimono nella memoria dell’ascoltatore.

Sandro Boccardi