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Siete qui: Home Festival Festival 2010 Amore e morte, fatalismo tragico e patetismo solipsistico
Amore e morte, fatalismo tragico e patetismo solipsistico PDF Stampa E-mail
Karlowicz morì nel 1909 a soli 33 anni, travolto da una valanga sui monti Tatra, durante un’escursione. All’epoca, con Szymanowski, egli era una delle personalità più in vista del panorama musicale polacco. Di formazione germanica (studiò a Heidelberg, Dresda e Berlino, oltre che a Varsavia), pur avendo subito l’influsso di Wagner come pure di Čajkovskij, Strauss, Grieg e Skrjabin, seppe tuttavia foggiarsi un personale idioma che pose in atto specie nei poemi sinfonici, genere rivelatosi congeniale alla sua vena creativa. Solido dominio della forma, ricchezza inventiva e sensibilità coloristica costituiscono gli elementi di spicco del suo operare, ben ravvisabili nella pagina in programma: Bianca da Molena, fascinoso Prologo Sinfonico estrapolato dalla Muzyka do bialej golabki op. 6 (Musica per la Colomba Bianca), destinata ad una pièce teatrale - oggi negletta - di Jozafat Nowinski, incentrata sulla fosca vicenda d’un cavaliere errante e d’un amore fatale, con tanto di morte dell’eroina e rinuncia ai piaceri del mondo. La prima esecuzione ebbe luogo a Berlino il 14 aprile 1900. Strumentato per grande orchestra, il Prologo s’impone fin dallo sfolgorante esordio, vero coup de théâtre, non estraneo a certo Dvořák, poi ecco la malia di un bel tema rimbalzato con grazia tra legni, ottoni ed archi. Cavalleresche fanfare emergono con possanza sul magma degli archi, innervate di rutilanti clangori e punteggiate da reboanti rintocchi delle percussioni. Ben presto la pagina si fa incandescente, suggerendo l’impeto della passione. Quindi, nell’incalzante (e čajkovskijana) sezione centrale, s’aderge palpabile il senso del destino che incombe. Misteriosi abissi e cupe figurazioni s’avanzano con minacciosa allure in un panorama di tragica ineluttabilità. Infine il colpo d’ala: trasfigurato, riappare l’effusivo tema melodico, tornando un’ultima volta a sedurci con la sua cordiale comunicativa.
È ispirandosi all’omonimo racconto di Dostoevskij che Prokof’ev compose Il giocatore, approntando egli stesso il libretto. Ambiziosa e innovativa, l’opera venne terminata tra il 1915 e il 1917, ma non fu rappresentata a causa della Rivoluzione d’Ottobre. Ripresa nel 1927/28, venne messa in scena solamente il 29 aprile del 1929 al Théâtre Royale de la Monnaie di Bruxelles. Dalla partitura, contrassegnata da un radicale modernismo, specie sotto il profilo armonico, con effetti grotteschi e passi angolosi atti a restituire l’atmosfera di allucinato e teso straniamento del soggetto, nel 1931 l’autore trasse una suite di eccezionale ricchezza timbrica, data alle stampe da Gutheil ed eseguita a Parigi nel marzo del ‘32: dell’opera essa costituisce un ammirevole compendio, mercé la maestria posta in atto nel caratterizzare, sul piano psicologico, i dissimili personaggi che vi agiscono. Ecco allora la baldanza giovanile del precettore Aleksej invasato dal tarlo febbrile del gioco e contrassegnato da immagini vorticose e scintillanti, ma anche da ritmi sghembi e foschi trasalimenti. La nonna, ella stessa giocatrice incallita, è sbozzata con tratti ora grotteschi, ora onirici, allusivi ritmi di danza e schegge melodiche ricche di charme, ma deformate come attraverso una lente; laddove la tronfia vacuità del Generale, stereotipato manichino, viene delineata con toni beffardi e caricaturale acredine. Gli fa da contraltare il ritratto di Pauline, dalla strisciante perfidia, resa da un’ambientazione sonora di dilagante ambiguità che ne sostanzia la bassezza morale. Da ultimo l’irrefrenabile epilogo dai climi demoniaci, realizzato assemblando materiali derivanti dai due intermezzi: vero e proprio palpitante tourbillon d’immagini sonore che pare la mimesi stessa della roulette, protagonista col suo incessante «vitalismo metallico».

Celeberrima, sorta di disperato testamento spirituale, più ancora: sofferta confessione intrisa di biografismo e imbevuta di esasperato pathos (da cui l’epiteto con cui entrò de jure nella storia), la Sesta Sinfonia di Čajkovskij vide la luce in quell’infausto 1893 che segnò la morte non accidentale del musicista russo, al termine di una vita tormentata da un’omosessualità forzosamente repressa. Egli stesso la diresse nella sua San Pietroburgo il 28 ottobre, nove giorni prima di andare incontro (più o meno) volontariamente alla fine. Se già il lugubre Adagio d’esordio dalle plumbee atmosfere preconizza il clima dell’intera partitura, ecco che l’Allegro muove da un esile spunto per decollare poi con quel tema struggente e lirico che da solo avrebbe garantito fama imperitura all’autore. Vigorose impennate, come ondate impetuose, vanno infittendosi con enfasi ammaliante e tragica nel vasto sviluppo, avviato da un lancinante schianto, giù giù sino all’effettistica perorazione in cui a lungo risuona il suadente tema, per culminare in una specie di trattenuto corale. Tra le plaghe melodiche del secondo tempo, quasi un amabile Valse caressante nell’inconsueto e claudicante metro di 5/4, si ammira la nostalgia affettuosamente partecipe per un passato ormai tramontato, vero distillato di un’epoca. Poi nell’aitante Scherzo dai prorompenti barbagli e dall’incedere di marcia non immemore di certi passi dello Schiaccianoci, a prevalere è un energetico brio, di matrice in apparenza solare, ottimistica e festosa, come di serenità auto-imposta a viva forza. Ma di ottimismo illusorio si tratta: lo rivela l’Adagio lamentoso collocato a suggello dell’intero impianto sinfonico, destinato a raggiungere un esacerbato climax emotivo, prima di collassare, richiudendosi solipsisticamente su se stesso nelle sorde brume delle ultime misure. Estremo, straziante appello all’umanità, cui poteva far seguito solamente il silenzio assoluto: dell’artista e dell’anima.

Attilio Piovano