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A proposito di Scarlatti... PDF Stampa E-mail
Cosa rappresenta questo progetto all’interno della sua personale esperienza di pianista e di musicista?

Una tappa importante e da molto tempo cercata. Ho sempre coltivato il piano classico parallelamente al jazz, due strade che in pubblico ho però tenuto a lungo separate. Ora, grazie a Scarlatti, sono riuscito a fondere in un unico discorso le due vie che hanno sempre caratterizzato la mia vita musicale.

Perché proprio Scarlatti?

Scarlatti è un musicista che ho sempre profondamente amato, i libri con le sue sonate sono sempre stati accanto al mio pianoforte. Potrei elencare molte ragioni per spiegare questa sorta di “innamoramento”: fantasia formale, vitalismo ritmico, passionalità, mediterraneità. Dentro i suoi suoni ci sono i colori del nostro cielo e del nostro mare, la voglia di vivere e di amare e lo struggimento di un attimo...

Cosa accomuna la musica di Scarlatti a jazz?

La sua è una musica umorale, cangiante, piena di movimento, le sue linee sono inscritte nel flusso della vita, come quando si improvvisa jazz. E lui, è ben noto, era uno straordinario improvvisatore. In più il suo linguaggio, anche se fissato sulla carta, condivide col jazz una grande, pagana “fisicità”.
Lo si percepisce chiaramente da moltissimi dei suoi geniali spunti tematici.
Sono disegni ritmici, nuclei melodici, a volte semplici intervalli non pensati a tavolino ma creati direttamente dalle sue mani sulla tastiera e poi elaborati e sviluppati.

In un passato anche recente non sono mancati i tentativi di “jazzificare” musica classica. Il suo progetto si inserisce in questo filone?

Assolutamente no. Non ho “jazzificato” Scarlatti e credo che le cosiddette operazioni di “jazzificazione” siano del tutto fallimentari sia rispetto al jazz sia nei confronti del materiale classico che si utilizza. Se l’avessi fatto avrei deformato, ridicolizzato, insultato il senso profondo dei suoni scritti dal grande compositore napoletano...

Come definirebbe allora il suo approccio alle sonate del Maestro?

Mi piace chiamarlo “composizione improvvisata”. Elaboro in tempo reale per mezzo dell’improvvisazione elementi tratti dalle sonate cercando di dar vita a forme narrativamente compiute. Tutti gli accorgimenti propri della composizione scritta servono allo scopo: aumentazione, diminuzione, inversioni, repentini cambi di tonalità, di ritmo, di colore. Un vocabolario da musica del ‘900, insomma. Il jazz quindi c’entra poco, se non per l’uso dell’improvvisazione, che d’altra parte non è affatto esclusiva di questa musica.

Come mai alcune sonate non hanno né prima né dopo alcuna improvvisazione?

Opere come la K.18, K.51 o K.260 sono pezzi di musica di tale intensità e solidità strutturale che ho sentito di non dover aggiungere nulla. E poi presentati nella nuda, potente, compatta veste data loro da Scarlatti creano, nell’economia generale del Cd, un’affascinante contrasto con le sonate precedute o seguite dalle mie improvvisazioni.

In che cosa soprattutto, secondo lei, risiede la genialità di Domenico Scarlatti?

È stato un visionario, ha anticipato di parecchi decenni soluzioni musicali che ritroviamo in Schubert e Beethoven. Inoltre, usando un termine di moda, può essere considerato un antesignano della musica cross-over, basti pensare ai materiali folklorici napoletani e spagnoli che troviamo in gran quantità nelle sue sonate. Ma, soprattutto, Scarlatti fu un eccezionale inventore di “microstorie”, un narratore in suoni paragonabile per senso formale, umanità e profondità a scrittori di racconti come Flaubert, Cechov, Verga. Quando si finisce di interpretare una delle sue sonate riesce difficile dire se si è trattato di un gioco o di un sogno, o del sogno di un gioco. Ma di sicuro ti rimane addosso un grande desiderio: di ricominciare a giocare, o a sognare.

intervista a Enrico Pieranunzi raccolta da Andrea Scaccia