Ragionar cantando Stampa

di Marina Verzoletto

«Faceva in modo di introdurre nella sua esecuzione una tale varietà, che ciascun brano sotto la sua mano assomigliava a un discorso». Il proto-biografo Forkel, forte della testimonianza di figli e allievi del Cantor, ci sollecita l’irresistibile quanto impossibile voglia di sentire almeno una volta come suonasse, Johann Sebastian Bach: le tastiere di cui era celebre virtuoso, ma anche gli archi, che pure padroneggiava. Se anche non le scrisse per eseguirle personalmente, ma per quel tal Linigke o Lünecke, o per Abel, violoncellisti alla corte di Cöthen intorno al 1720, mentre le componeva Bach udiva perfettamente, con il suo infallibile orecchio interno, come dovevano “suonare” sotto le dita e i crini le sue Suite per violoncello solo. Udiva, letteralmente, l’inaudito: perché mai nessuno ancora aveva pensato seriamente a sondare le possibilità di quello strumento brontolone e plebeo, di quelle corde «grosse come gomene» derise da un trattatista francese paladino della nobile viola da gamba. Per il violoncello Bach inventa dal nulla un intero universo espressivo. Sceglie la forma della suite di danze senza mai scostarsi dallo schema standard: allemanda, corrente, sarabanda, giga, precedute da un preludio e con una coppia di Galanterien (minuetti o bourrées o gavotte) intercalata tra la terza e la quarta danza. Ma l’apparente ripetitività dello schema è elusa dalla varietà incomparabile delle realizzazioni. Ogni movimento è un discorso argomentato con infinita sottigliezza e ricchezza di figure melodiche concepite nelle molteplici identità dei registri, dal grave lungamente risonante che crea un effetto di pedale organistico nel Preludio della Quarta Suite allo squillo acuto e teso di tanti luoghi della Sesta, passando per la calda cantabilità che più spesso e facilmente ci affascina, sciolta in figurazioni arpeggiate, distesa in ampie arcate o in liquide fioriture, proiettata in agili passi di ballo. Cantando, Bach ragiona: svolge la sua misteriosa eppure afferrabile logica, dimostrando come sia possibile scrivere una musica polifonica senza fare quasi mai sentire note realmente sovrapposte. È una scrittura sintetica così perfetta che l’ascoltatore, consapevolmente o inconsciamente a seconda della sua preparazione, immagina le note mancanti ma non prova alcun bisogno di udirle veramente. L’illustrazione quasi provocatoria di questo illusionismo acustico è la fuga contenuta nel Preludio della Quinta Suite; ma il culmine della scrittura sintetica è la Sarabanda della stessa suite: otto battute, quaranta note in tutto nella prima parte, sessantotto note, dodici battute nella seconda. Con questa economia di mezzi assoluta, linee spezzate e amplissime disegnano in pochi tratti tutto lo spazio armonico, come il gesto di un demiurgo che in un istante plasmi il cosmo.