Skip to content
Siete qui: Home Festival Festival 2009 Rachmaninoff, non di solo pianoforte…
Rachmaninoff, non di solo pianoforte… PDF Stampa E-mail

di Massimo Viazzo

C’è una celebre fotografia che ritrae Horowitz assorto nel suo studio di fronte al pianoforte. Sulla parete posteriore campeggiano alcuni ritratti. Proprio al di sotto del fiero profilo di Toscanini riconosciamo, in una posa quasi hollywoodiana, il volto triste e malinconico di Sergej Rachmaninoff. Il virtuoso iperbolico, il sentimentale decadente, il musicista di Beverly Hills: questa pare ancora oggi nella coscienza collettiva l’istantanea del compositore russo.
Ma esiste anche un altro Rachmaninoff. Pochi sanno, ad esempio, che fu proprio con un’opera lirica (Aleko, rappresentata con enorme successo nel 1893 al Bol’šoj) che Rachmaninoff si congedò dalla classe di composizione del Conservatorio di Mosca. Con un libretto imposto dalla commissione presieduta da Arenskij (un atto unico da Gli Zingari di Puškin) e perfettamente segmentato «a numeri» il diciannovenne Rachmaninoff, travolto da una bruciante ispirazione, terminò la partitura in poco più di due settimane. Il libretto soffre, in effetti, di una certa schematicità formale. I tredici brani che ne costituiscono l’ossatura sembrano a volte solo giustapposti e la drammaturgia che scaturisce è un po’ carente di quella consequenzialità necessaria tale da renderla essenziale. Rachmaninoff vi pose parzialmente rimedio con una manciata di ritorni tematici, ma non potendo stringere una collaborazione fattiva con il librettista dovette limitarsi (si fa per dire…) a colmare il contenitore che gli era stato approntato: un profluvio di suoni e colori, un’esuberanza melodica, l’ardore traboccante (ma già screziato da venature cupe e opprimenti) di un ragazzo poco più che adolescente e soprattutto una vera enciclopedia del teatro musicale russo. Riconoscibilissimi Glinka nel Racconto del vecchio zingaro (n. 3), Borodin nel Coro (n. 2) e nelle Danze (nn. 5 e 6), Mušorgskij nell’ultima parte del Finale (n. 13) e il venerato Čajkovskij nella superba Cavatina di Aleko (n. 10), ma hanno anche il marchio di fabbrica dell’autore della Patetica i temi fatali che come onde si inarcano reiterati sulle martellanti terzine d’accompagnamento nell’Introduzione (n. 1). Aleko è Otello, anzi, un Canio russo, ma a differenza dei protagonisti nostrani la gelosia, qui, si unisce al solipsistico girovagare del diverso, dell’escluso.
L’Isola dei morti (1909) è un poema sinfonico (suggestione dell’omonimo dipinto di Böcklin) ormai assurto al rango di capolavoro. Fluisce densissimo, magmatico, con sonorità orchestrali tese e nerissime ed è permeato dal ritmo irregolare di 5/8 prima cullante poi solenne e maestoso, ma sempre incombente e minaccioso. Con grande economia motivica (il tema del Dies Irae si insinua ineluttabile tra le maglie dell’intera composizione) Rachmaninoff scolpisce un impressionante monumento funebre che ci lascia attoniti di fronte al mistero della morte.