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Siete qui: Home Festival Festival 2009 La Cenerentola, ossia La musica in trionfo
La Cenerentola, ossia La musica in trionfo PDF Stampa E-mail

di Alberto Mattioli

La Cenerentola, ossia La bontà in trionfo, «dramma giocoso» in due atti, libretto di Jacopo Ferretti tratto da quello di Agatina o La virtù premiata di Francesco Fiorino per Stefano Pavesi (1814), derivato a sua volta dalla Cendrillon di Charles-Guillaume Étienne per Nicolò Isourard (1810) e per li rami da Cendrillon ou La petite pantoufle del celebre favolista Charles Perrault (1697), musica di Gioachino Rossini, andò in scena al teatro Valle di Roma il 25 gennaio 1817. Dopo La pietra del paragone, L’italiana in Algeri, Il turco in Italia e Almaviva, o sia L’inutile precauzione (alias Il barbiere di Siviglia) è la quinta delle grandi opere buffe rossiniane. E anche l’ultima. Perché?
La Cenerentola
porta, diciamo così, alle estreme conseguenze un teatro musicale dalla drammaturgia particolarissima, letteralmente inaudita prima (e anche dopo) in tutta la sua storia. Un teatro che non racconta la realtà, ma la trascende. Qui il comico non è mai o quasi «di situazione», ma sempre astratto, irrealistico, surreale. La pura geometria del ritmo orchestrale si sposa con l’arabesco del belcanto non per descrivere il mondo, ma per trasfigurarlo. È un teatro dell’assurdo ante litteram, un pretesto per cercare quel «bello ideale» che Rossini considererà sempre il suo ideale estetico, posto che, parole sue in un insolito momento di riflessione teorica e, ancor più insolito, di sincerità con sé stesso, la musica «non avendo mezzi per imitare il vero, s’innalza al di là della natura comune in un mondo ideale».
Questo non elude, evidentemente, né la satira sociale, fortissima in Cenerentola a onta della natura favolistica della vicenda, né tantomeno la creazione del Personaggio: ché anzi, come nota Giovanni Carli Ballola nel suo recente Rossini, per esempio Don Magnifico non è un semplice «tipo» da opera buffa ma, appunto, un personaggio «degno del Molière più amaro. Nella sua enorme, assoluta gratuità, la vanità del barone di Montefiascone è tragica quanto l’ipocrisia di Tartuffe o l’avarizia di Harpagon» e, aggiungeremmo noi, altrettanto violenta verso gli altri, in questo caso la povera Angelina «ridotta in schiavitù», direbbero le cronache di oggi, spogliata di ogni avere e perfino, pirandellianamente, dell’identità.
Ma in Cenerentola l’armamentario comico rossiniano si sviluppa tanto da arrivare al punto di non ritorno: mai i crescendo sono stati così vertiginosi, mai i nodi dei grandiosi concertati sono stati così «avviluppati», mai l’efflorescenza belcantistica portata a questi pirotecnici livelli. Mai la tendenza al gigantismo, tipica di tutto Rossini e rigettata dai rossiniani della prima ora come Stendhal, si era espressa con tanta chiarezza. La Forma, in Rossini, tende sempre ad gonfiarsi: e qui davvero raggiunge il massimo che l’opera buffa possa sopportare e il suo pubblico recepire (infatti quest’ultimo preferirà sempre, alla Cenerentola, il Barbiere). E Rossini trasferirà definitivamente all’opera seria la sua ansia di assoluto.