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Evocazioni di natura PDF Stampa E-mail
di Luigi Di Fronzo

Nella clonazione di un classico del descrittivismo musicale barocco (Le quattro stagioni di Vivaldi) si sono cimentati in molti, dall'elettronica (Wilbrandt) al tango-fusion (Piazzolla) e al jazz. Ecco allora perchè l'esecuzione di questa potrebbe chiamarsi il concerto delle Otto stagioni, come il titolo discografico di una delle ultime incisioni del violinista Gidon Kremer. Ma al di là dei numeri l'accostamento non cambia. L'idea è sempre quella di mettere insieme in una stessa locandina due pagine ispirate alle cicliche ripartizioni del calendario: da un lato le popolarissime Quattro Stagioni di Antonio Vivaldi, uno dei gioielli ricorrenti (e in assoluto più amati) di tutto il barocco veneziano. Dall'altro le Cuatro estaçiones porteñas dell'argentino Astor Piazzolla, vale a dire le Quattro Stagioni di Buenos Aires, composte sul finire degli anni Sessanta dall'ormai leggendario poeta del tango e della milonga. Ma se in quel disco Kremer spezza l'unità delle due opere, intercalando stagione per stagione Mozart a Piazzolla, qui si mantiene intatta l'integrità. Così nella prima parte il pubblico potrà assaporare il gioco di imitazione della natura, nel filone settecentesco della cosiddetta musica "a programma": ad esempio individuando il gorgheggio degli uccelli o il latrare dei cani nella Primavera, piuttosto che il rombo del tuono (nell'Estate), il crepitìo del ghiaccio che si scioglie e il soffio impetuoso dei venti nell'Inverno. E poi per finire si imbatterà nelle Stagioni di Piazzolla, meno descrittive, ma non per questo prive di fascino: ennesima testimonianza di un crossover musicale che filtra i ritmi popolari della cultura argentina e i riferimenti classici della tradizione. Naturalmente non farà male ricordare un poco di storia. Sin dal loro fortunato battesimo editoriale, nella Amsterdam tardo barocca del 1725, Le quattro stagioni di Vivaldi hanno affascinato generazioni di esecutori e fruitori, come meraviglioso esempio di musica a programma. Da ascoltare e riascoltare con gioia. Nel sottofondo dell’architettura formale in tre movimenti lievita il concetto di stravaganza. Uno spirito fantastico di libertà d’espressione, un’eccentrica e paradossale arte della sorpresa che ben si concilia con la propensione alla piacevolezza, alla sensorialità, all’edonismo. Stravaganza come arte della dissimulazione, come inquietante tendenza alla deformazione che era il perno su cui ruotava l’immaginario di tanta pittura illusionistica, vagamente onirica: coeva o antecedente di anni. Si pensi agli strumenti musicali di Baschenis, alle nature morte di Poussin, alle fantasie fiamminghe di Bosch, persino a certe invenzioni del Tiepolo o del Guardi, ma anche alle tele di squisito argomento musicale, da dove sbucano curiosi fruitori dell’evento sonoro: un cagnolino con il muso rivolto ai suonatori da camera nel celebre quadro di Pietro Longhi (Concerto), piuttosto che frotte di bambini che giocano in primo piano in un dipinto anonimo del XVIII secolo, dove i musicisti sono schierati in una lussuosa veste cerimoniale. Diverso il caso di Piazzolla. Qui affiora il segno di un’emozione senza tempo. Languore, disperazione infinita, contrizione interiore e solitudine amara; ma anche tenerezza poetica, furore accecante, sensibilità malata e vitalismo travolgente. Impressioni che riportano al mondo letterario sudamericano dei Neruda, dei Garcìa Màrquez, dei Vargas Llosa e dei Borges, come esplorando lo scrigno musicale dei Ginastera, dei Gardel, dei Troilo o quello cinematografico dei Solanas. Tutti artisti allineati chi con i versi, chi con la gestualità del ritmo nell’universo della passione e della sensualità, della brutalità e della magia del tango.