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Siete qui: Home Festival Festival 2009 «Le marin c’est moi»
«Le marin c’est moi» PDF Stampa E-mail

di Luigi Di Fronzo

Cos’hanno in comune il Concerto dell’albatro di Ghedini, La Tempesta di mare di Vivaldi, l’ouverture della Calma di mare e felice viaggio di Mendelssohn e La Mer di Debussy se non l’acre, rigenerante profumo di salsedine? Sul globo come sappiamo ci sono enormi distese d’acqua, specchi lagunari e spazi profondi davvero di ogni tipo. C’è il mare scuro, tenebroso, a tratti violento nel gioco rissoso delle onde che ci inonda dalle pagine narrative del Tifone di Conrad, come c’è quello disteso, immobile, che ferisce lo sguardo in un’abbagliante distesa infuocata dal sole allo Zenit, proprio come nella Mer. In realtà la musica ci offre un discreto campionario: il mare mediterraneo dell’Otello di Verdi, quello freddo e nordico di foggia romanticamente brahmsiana (Lieder e musica da camera), l’esotico ancheggiare della goletta in Shéhérazade di Ravel e il mare inquieto, plumbeo e cupo del Peter Grimes di Britten. Difficile certo immaginare l’esatta percezione marina di un autore come Debussy, che guardava le acque con occhi utopistici e lontani (L’isle joyeuse, Reflets dans l’eau, Sirènes, La Cathédrale engloutie) in un ambiente impressionista già fortemente segnato dalle onde di Hokusai e dai velieri di Turner. Sia come sia, quando nel 1889 si trovò a rispondere – come nel fatidico decalogo proustiano – alla domanda sulla professione preferita se non fosse diventato musicista, Debussy non ebbe alcun dubbio: “il marinaio” era lui, influenzato forse dal carattere nomade del padre e dalle aspirazioni di vagare nei mari del Sud. Difficile che conoscesse Salgari, ma certamente le tele di Gauguin, il Gordon Pym di Poe e il nome di Stevenson potevano dirgli qualcosa. Fu in ogni caso nel 1903, in piena stesura de La Mer, che scrivendo ad André Messager Debussy volle puntualizzare: «Voi forse non sapete che ero destinato all’ottima carriera del marinaio e che ne fui distolto soltanto dalle vicissitudini della vita» e forse il ricordo andava alla luce sul Mediterraneo e ai soggiorni in Bretagna. L’esito più ovvio è una tavolozza di giochi di luce, un paesaggio stemperato fra abili colpi di pennello, dove si respira la forza del vento e il profumo del mare. Musica «assorbita dalla carta» come in un album di incisioni giapponesi, allora tanto in voga. «La musique est des couleurs» annoterà fra i suoi scritti. Se dunque a Parigi, dopo aver assaporato il gusto decadente sul testo simbolista del Pélleas di Debussy, il pubblico più conformista veniva educato alla complessità delle opere di Wagner (come Tristano, rappresentata finalmente nel 1904) e più tardi il Boris Godunov di Musorgskij in scena nel 1906, con La Mer l’autore metteva a fuoco un mondo di suggestioni pittoriche, in un complesso intreccio sonoro che alludeva alla vastità degli orizzonti e al movimento del mare. Le allusioni alla pittura aiutano dunque a fotografare tre episodi – Dall’alba a mezzogiorno, Giochi di onde, Dialogo del vento e del mare – e creano l’occasione di un misterioso ondeggiare per quinte nel primo, di un gioco mobilissimo di figurazioni nel secondo e di un’inarrestabile energia nell’ultimo. La partitura fu accolta con un misto di incredulità e favore alla prima del 15 ottobre 1905, per i Concerts Lamoureux. Per la cronaca dirigeva Camille Chevillard.
Forse aveva ragione Volkov (il redattore delle Memorie di Sostakovic) a mettere l’accento sul ruolo di folle jurodivij, avuto dal musicista: tollerato da Stalin, come un sanguinario monarca rinascimentale poteva sopportare le impertinenze di un giullare di corte. Lasciato in vita da un dittatore inconsapevole di quanto la dimensione epica e celebrativa di alcune opere non fosse che un modo per denunciare il falso ottimismo di quegli anni. E in realtà non celasse, nemmeno troppo in profondità, la tragedia dello stalinismo interpretata in modo lucido, spietato. Con l’arma tagliente e grottesca della satira e il ricorso ad uno humour corrosivo, non privo di efficacia, imbevuto di una dignità lirica straordinariamente emotiva. La Sinfonia n. 8 in do minore op. 65 è del 1943. Fu data a Mosca quello stesso anno, il 4 novembre, sotto la direzione di Evgenij Mravinskij. Dice l’autore: «Ho voluto ricreare il clima interiore dell’essere umano assordato dal martello della Guerra, cercando di relazionare le sue angosce, le sofferenze, il coraggio e la sua gioia. Tutti questi stati psichici hanno assunto una vivezza particolare, evidenziata dal focolaio della guerra». Programma interiore, ma esplicito, che si spalma su una sequenza in cinque movimenti: un Adagio – Allegro non troppo accesamente drammatico, un Allegretto umoristico e brutale, un Allegro non troppo, un Largo in cui si ritaglia un tema di marcia funebre e un più rasserenato Allegretto conclusivo.